"Non ho paura della cattiveria dei malvagi, ma del silenzio degli onesti". (Martin Luther King JR)

mercoledì 25 luglio 2012

Tagli boschivi: ceduazione o diradamento?


Sono i boscaioli stessi a mettere in discussione i progetti silvoculturali di Regione,Comunità montana e Provincia.
Per rifornire le centrali a legna, tali enti si propongono di convertire con tagli graduali il ceduo all'alto fusto. 
Per avviare all’alto fusto una zona di bosco è necessario il diradamento. 
Per un diradamento fino al 40% non è necessaria alcuna autorizzazione, basta darne comunicazione.
I tagliaboschi non sono d’accordo. Forse per i cerri, ma per i faggi dicono che non ha senso. 
Il loro apparato radicale è troppo superficiale, una bufera di vento rischia di stenderli se troppo alti e diradati, perché meno protetti dalla massa compatta del bosco.
Ma soprattutto hanno da ridire sulle conseguenze per il sottobosco che diventava nudo, totalmente privo di vegetazione perché il sole fatica a penetrarvi. 
In tal modo, nei ripidi pendii quando piove, il suolo è soggetto ad un dilavamento in grado di asportare humus e terreno fino ad indebolire l'apparato radicale delle piante che, poi,un forte vento scalzerebbe.
Insomma, secondo il loro giudizio c’è da abbandonare la politica delle fustaie nel faggio per tornare al bosco ceduo, com’era sempre stato nell’antichità.  In sovrappiù, ci sarebbe da vigilare che le regole di taglio vengano rispettate, che le matricine rilasciate siano in numero consono e non così sottili da spezzarsi sotto il peso della neve alla prima abbondante nevicata o peggio se arriva i vetro ghiaccio.

Da una ricerca pedologico-forestale fatta sulle dolomiti si ricavano al riguardo indicazioni e spunti di riflessione interessanti che confermano le loro preoccupazioni.

Nelle faggete, la cessazione della ceduazione con il conseguente passaggio a formazioni che si stanno evolvendo verso l’altofusto, sta facendo emergere problemi di instabilità meccanica che devono far riflettere sui criteri della futura gestione dei popolamenti forestali.
I processi pedogenetici nei terreni dei versanti scoscesi risultano essere fortemente condizionati negativamente dall’intenso e prolungato sfruttamento derivato dalle utilizzazioni forestali (trattamento a ceduo semplice con tagli ravvicinati nel tempo) che ha comportato, come inevitabile conseguenza, un notevole impoverimento del suolo.
Tale impoverimento è stato accentuato anche dai processi erosivi i quali, facilitati molto spesso dalle pendenze elevate, hanno interessato il terreno messo a nudo dai frequenti e ripetuti tagli.

All'interno di formazioni di faggio che un tempo erano interamente governate a ceduo, da osservazioni dirette emerge che all’interno di complessi boscati, in uno stadio di pieno sviluppo e pertanto ancora ben lontani dal raggiungere quello di maturità, con una certa frequenza singole piante cadono a terra sotto la spinta del vento o sotto il peso della neve. 
Le altre piante del popolamento (tranne quelle eventualmente coinvolte direttamente nella caduta), anche se distanti solo pochi metri dalla pianta schiantata e  con caratteristiche biometriche del tutto simili a questa, non subiscono alcun danno.
Tale situazione la si riscontra diffusamente in quasi tutti i popolamenti puri di faggio invecchiati, sottoposti o meno a tagli di avviamento all’altofusto.
Quelle che cadono a terra risultano essere sempre quelle di maggior diametro presenti all’interno della faggeta.
Il suolo poco profondo, ricco di scheletro ( parti rocciose) e spesso in forte pendenza, può infatti fornire un ancoraggio solo fino a quando la pianta non ha raggiunto quel punto critico che ne determina l’instabilità meccanica.
Le piante cadono al suolo prevalentemente nei mesi estivi, in concomitanza di giornate ventose soprattutto dopo eventi piovosi di una certa entità che hanno il duplice effetto di appesantire la chioma e di rendere meno solido e stabile il terreno.
Nei mesi autunnali gli schianti si manifestano invece con minore intensità e sono causati dalle prime nevicate della stagione che possono trovare i faggi con la chioma ancora densa in quanto non hanno iniziato a perdere le foglie.
L’entità dell’incidenza del fenomeno si presenta abbastanza variegata. Si possono osservare aree dove gli schianti interessano alcune decine di piante ad ettaro, altre dove sono solo qualche unità le piante cadute al suolo.
Come termine di paragone di quanto in precedenza illustrato è doveroso evidenziare che in epoca passata, quando era praticato il governo a ceduo dei boschi di faggi non sussistevano problemi di instabilità meccanica.
Le ceppaie della faggeta governata a ceduo, infatti, danno origine ad un soprassuolo con una altezza minore rispetto all’altofusto e soprattutto con una massa legnosa per ceppaia molto inferiore a quella di una singola pianta alta diverse decine di metri e con diametri a volte superiori ai 50 centimetri.
L’apparato radicale può pertanto ben garantire nel caso del bosco ceduo, a differenza di quanto si verifica nell’altofusto, un solido ancoraggio al terreno.
Si riaffaccia l’ipotesi di un ritorno al governo a ceduo delle formazioni forestali, o di ampie porzioni di esse, che sono maggiormente soggette ai fenomeni di instabilità meccanica. 
Questa soluzione, però, va a scontrarsi da un lato con le disposizioni normative che non consentono la conversione da fustaia a bosco ceduo (a maggior ragione all’interno di un’area protetta qual è un parco nazionale) e dall’altro con la difficoltà pratica di mantenere il governo a ceduo in popolamenti forestali che, in considerazione dell’ubicazione e delle collegate difficoltà di esbosco, risultano essere a macchiatico decisamente negativo.
Uno degli interventi è quello di aumentare  la profondità del terreno.
Per ottenere l’aumento della profondità del terreno è necessario agire prevalentemente mediante l’accumulo di sostanza organica. Al riguardo, anche in considerazione delle recenti esperienze sull’importante ruolo della necromassa legnosa all’interno degli ecosistemi forestali non va ritenuto sufficiente il solo apporto della biomasssa fogliare; se si vuole infatti favorire un più rapido processo di miglioramento del suolo è necessario il contributo di materiale legnoso morto anche di notevoli dimensioni.
In considerazione del fatto che il problema degli schianti sta attualmente interessando formazioni forestali di “giovane” costituzione, non è da escludersi che in futuro l’instabilità meccanica vada ad interessare non più solamente soggetti isolati, bensì gruppi di piante o zone più o meno ampie dei complessi boscati.
Secondo  i progetti delle amministrazioni il taglio, per essere economico, dovrebbe svilupparsi sempre più in modo industriale, con carraie all’interno dei boschi per il transito di mezzi meccanici. Avrebbe vinto come sempre il criterio di economicità a tutto svantaggio del mantenimento delle risorse.
Un diradamento generalizzato dimagrirebbe i boschi ben oltre la rinnovabilità. 
Il taglio industriale non potrebbe mai risultare sostenibile. E' lo stesso principio di economia di scala ad essere in antitesi all’idea di sostenibilità.

I boschi costituiscono un patrimonio che solo negli ultimi 40 anni si è risollevato da una ceduazione cronica, da tagli massicci e troppo ravvicinati nel tempo.
Un patrimonio da conservare, invece, da accrescere come filtro rispetto ai veleni della pianura padana.  Come area di assorbimento di CO2 e di conservazione dell’umidità del suolo a fronte di un cambiamento climatico incombente.
Invece di incentivare il disboscamento per il recupero di aree a prato senza più ragion d’essere per l'assenza di bestiame al pascolo, la Regione dovrebbe dare incentivi in denaro perché i privati non taglino i loro boschi per vendere legna. Della serie, ti pago lo stesso ammontare che ti sarebbe derivato dalla legna da ardere ricavata e tu non tagli per 30 anni. La UE ha immaginato addirittura la possibilità che possano essere le stesse aziende a tirar fuori i soldi perché i boschi di una certa area restino integri per anni ancora.  L'idea sarebbe questa :  ti compro la legna da ardere di quel bosco e te la pago, ma non la taglio, anzi lascerò che cresca di volume a tuo futuro interesse, perchè come azienda devo pareggiare la CO2 che emetto.
Per la conservazione dei boschi, non sono certo i boscaioli a costituire un problema. Ognuno di loro non può tagliare più di tanto con le proprie mani. Inoltre, sono necessari per l'autoconsumo reale dei borghi per l’inverno. 
Occorre opporsi che sorgano aziende dotate di mezzi per il taglio industriale che, oltre a massimizzare il tagliato, disseminerebbero la montagna di nuovi tratturi e strade forestali, spezzettando l’integrità della foresta e movimentando e distruggendo il suolo.


Serioli Giuliano
 

domenica 22 luglio 2012

Ghiaie ofiolitiche al bando

http://www.youtube.com/watch?v=LpFWSf2iU1Q&feature=share
Minuto 40.40

L'assessore Alinovi (comune di Parma) dichiaratamente ignaro del problema ofioliti e amianto prima della sua nomina ad assessore è inevitabilmente impreciso su alcuni aspetti del tema ma è importante la dichiarata intenzione come amministrazione di Parma di vietarne l'uso sul territorio comunale per regolamento! Credo sia un importante punto di svolta, una decisione che merita di essere divulgata come coraggioso e salutare atto amministrativo da imitare. In attesa di conoscere i provvedimenti concreti ho diffuso la seguente nota:
Dal 2008, anno di costituzione del comitato che si batte per la chiusure delle cave di “pietre verdi”, chiediamo invano alle amministrazioni pubbliche di riconoscere l’esistenza di un problema a rilevanza sanitaria. Poche settimane sono trascorse dall’insediamento della nuova amministrazione di Parma ed ecco che il problema viene portato alla luce; del resto la massa enorme di documentazione disponibile a sostegno della chiusura dovrebbe indurre amministratori pubblici eticamente corretti a documentarsi e adottare provvedimenti conseguenti. 
Fabio Paterniti (portavoce Cave all'amianto no grazie - portavoce tematico di Rete Ambiente Parma)

venerdì 20 luglio 2012

Neviano, il Sindaco, la centrale

La "Gazzetta" di oggi riporta le dichiarazioni del sindaco di Neviano, rammaricato e  dispiaciuto che qualcuno sia preoccupato degli effetti della centrale a cippato che vuol costruire in paese.
Anzi, è anche un pò incazzato che "si debbano esprimere opinioni senza conoscere ciò di cui si parla".
In sostanza, le competenze le ha solo lui. Questo vuol dire.
E infatti dimostra subito quali siano le sue.

Dice  "... una caldaia a  cippato non è altro che una stufa,  come quelle di una volta nelle scuole.."

Forse è lui che non sa che un inceneritore a biomassa per essere economico non può bruciare  legna stagionata, ma cippato di ramaglie.
Il cippato fresco ha un'umidità del 50%,  brucia male, ha un basso rendimento, cioè occorre bruciarne di più, ha notevoli emissioni da camino e produce dal 3 al 5% di ceneri della massa bruciata.
Provi a chiederlo al  sindaco di Monchio, la cui centrale  brucia già da tempo, o a quello di Palanzano che, con la sua centrale, ha pensato bene di smettere di bruciare cippato per i fumi e le ceneri e di passare al
pellet, anche se più costoso.
Forse, poi, non sa che la depurazione dei fumi della centrale è solo meccanica. Che il  multiciclone serve ad abbattere solo la fuliggine, non le polveri volanti che contengono le sostanze nocive. Forse non sa che è molto meno efficiente dell'abbatimento dei fumi di una moderna caldaia a pellet o legna di cui i suoi compaesani si sono già dotati (emissioni di 50 mg/Nm3 per la centrale, contro i 5mg/Nm3 della stufa a pellet).

Dice... "questi sistemi sono ampiamente utilizzati nei territori alpini"

Ma sicuramente non sa che le grandi centrali termiche a cippato dell'Alto Adige non solo bruciano segatura e scarti di segheria senza intaccare i loro boschi, ma possono permettersi una depurazione molto maggiore dei fumi  attraverso filtri a maniche, filtri elettrostatici, filtri a carboni attivi, perchè l'economia di scala della loro mole e
potenza installata glielo consente.

Dice..."la legna utilizzata sarà esclusivamente locale, dei nostri boschi e il quantitativo necessario solo marginale".

Lo vada a raccontare alla gente di Sasso e Scurano, preoccupata già per i tagli di inizio luglio : 13 cataste per complessive 1100 tonnellate, lungo 6 km di strada.
Forse non si rende conto che la speculazione sulla legna da ardere ha innescato da ormai 3 anni un taglio selvaggio dei nostri boschi i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti.
Una speculazione ed un taglio che le autorità non controllano più e che nemmeno multe da migliaia di euro riescono a fermare.

Dice..." anzi,  il  taglio sarà fatto in boschi cedui trasformandoli in boschi ad alto fusto"

La trasformazione del bosco ceduo in alto fusto consiste nel taglio a diradamento.
Si tratta di un taglio industriale del bosco, con nuove carraie di servizio e piazzole per l'accumulo di legna. Di norma il diradamento per essere economico deve essere almeno del 50%, cioè deve produrre almeno 500 quintali di legna per ettaro.
Lui queste cose le dovrebbe sapere, perchè il Consorzio volontario del monte Fuso ha già ricevuto finanziamenti regionali per dotarsi di macchinari per il taglio industraiale ( misura 41).
Ma forse non sa che quelli del  mestiere, i boscaioli,  hanno sempre effettuato il taglio raso matricinato e che sono contrari al diradamento, a trasformare il  bosco in alto fusto.
Sono contrari per due motivi.
Primo. Il  diradamento nei faggi, notoriamente con radici superficiali, mette a rischio  di bufere di vento e di vetroghiaccio le piante stesse, non più protette dal fitto del bosco.
Secondo. Il diradamento, in ogni tipo di bosco, impedisce la crescita del sottobosco. Sotto, il terreno rimane spoglio di ogni vegetazione arbustiva, nudo ed esposto così al dilavamento da piogge ed all'erosione.

Con le parole..." si riprende così un'antica pratica di cura del bosco", intende forse dire che il diradamento è la stessa cosa della pulizia del bosco che si faceva una volta e che ora non si fa più?

E' una falsità. I montanari lo sanno bene. Sanno che si faceva quando in montagna c'era tanta gente e poca legna.

Il suo progetto è chiaro : tagliare i boschi per produrre legna da vendere e cippato per alimentare le centrali termiche. Non l'ha deciso lui,lo hanno fatto la Regione e la Provincia.

Serioli Giuliano

giovedì 19 luglio 2012

Gazzetta su centrale di Neviano

L'articolo odierno della "Gazzetta"  sulla centrale di Neviano, senza volere, è illuminante sui progetti che hanno le amministrazioni per la nostra montagna. 
Abbiamo letto le dichiarazioni del sindaco che tranquillizza sulle emissioni zero della costruenda centrale a legna che riscalderebbe edifici comunali. Poi il riporto delle dichiarazioni di un anno e mezzo fa  di Orlandini della Regione che, insieme a Pier Luigi Ferrari, confermava il finanziamento regionale al Consorzio volontario del monte Fuso per "sviluppare la filiera del legno", cioè dar inizio al taglio meccanizzato dei boschi.
La regione, infatti, in accordo con la provincia, a fine 2010 aveva da poco approvato lo stanziamento di 3.000.000 di euro, coperti in gran parte dal programma 
di sviluppo rurale, per finanziare due progetti : il progetto di filiera 10 nei comuni di Borgotaro, Tornolo e Albareto e il progetto di filiera 41 a ridosso del monte Fuso, nel comune di Neviano Arduini. 
I progetti, in pratica, dovevano servire ad avviare un sistema di taglio industriale dei boschi con produzione di tondame da lavoro ( tronchi da cui ricavare assi), legna da ardere e cippato.
In sostanza, la Regione finanzia cooperative di taglio per dotarle di strumenti meccanici efficienti : harwester, cippatrici, trattori cingolati.
Il taglio è un diradamento industriale del bosco, con nuove carraie di servizio e piazzole per l'accumulo di legna. Di norma il diradamento per essere economico deve essere almeno del 50%, cioè deve produrre almeno 500 quintali di legna per ettaro. 
Ecco allora che si capisce il perchè dell'allarme dei residenti di Sasso e Scurano, riportato dalla "Gazzetta" due settimane fa, "per quelle cataste di legna lungo 6 km di strada".  ( ogni catasta era lunga 20 metri, larga 4 e alta 2,5, corrispondente circa a 200 m3 steri, cioè 1.100 quintali)
La gente ha detto che c'erano 13 cataste, in pratica 15.000 quintali di legna tagliata e accatastata, che corrispondono al diradamento di 30 ettari di bosco della parte nord del  monte Fuso. 
Ma non c'è il parco al monte Fuso? 
Poi c'è il finanziamento regionale per la caldaia a cippato, altri 400.000 euro che, però, vanno a sommarsi a quelli per le caldaie a cippato di Berceto, Calestano, Varano Melegari, anch'esse approvate e finanziate da Regione e Provincia.
Il progetto è chiaro : tagliare i boschi per produrre legna da vendere e cippato per alimentare le centrali termiche.
La  prima domanda che viene da porsi è : le amministrazioni non si preoccupano del fatto che tali tagli vanno a sommarsi a quelli già devastanti della speculazione sulla legna da ardere?
La seconda domanda è : tutti quei finanziamenti, insieme a ciò che dovrà tirar fuori ciascun comune, non sono esagerati per scaldare qualche edificio comunale ? Non sono soldi buttati?
Non sarebbe meglio destinarli alla ristrutturazione dei borghi finalizzata al  risparmio energetico?
Non basterebbero delle moderne stufe a pellet, proporzionate alla superficie degli edifici?
Detraibili al 55% dalle tasse e dotate di abbattimento dei fumi 10 volte più efficienti delle centrali a biomassa che bruciano cippato fresco?
La  risposta dei sindaci è : faremo il teleriscaldamento e servirà anche ai cittadini.
Come a Monchio, che per convincerne ad ogni costo una trentina ad allacciarsi hanno proposto loro tariffe addirittura più basse di quelle stabilite per gli edifici comunali? 
Col loro progetto sono proprio alla canna del gas ?
La gente in montagna la legna ce l'ha già  di suo e si è già attrezzata con stufe automatiche miste pellet-legna, con abbattimento dei fumi.
La terza domanda è :  visto che la centrale termica di Palanzano ha smesso di bruciare cippato perchè bruciava male a causa della sua elevata umidità, producendo elevate quantità di fumi e di ceneri, intendono proseguire, come fa Monchio, a bruciare cippato fresco e ad appestare i borghi?

Nell'articolo, ha ragione Francesco Barbieri, di Reteambiente, a preoccuparsi del destino della rinomata aria di montagna. Altrettanto, dico io, ci sarà da preoccuparsi dell'erosione dei suoli per il dilavamento di quei versanti senza più copertura utile. 
Il  rischio è che, quando pioverà sul serio, verrà giù tutto come in Lunigiana, nelle Cinque Terre.

Serioli Giuliano

mercoledì 11 luglio 2012

PER UN DIBATTITO SULLE BIOMASSE

Alcuni  interrogativi di Bruno Abati   (ALBA)

- Che differenza c'è tra un gassificatore (quello che dovrebbe sorgere in località Nacca di Vaestano) e un inceneritore (Monchio, Palanzano, Borgotaro) ?
- Come mai  nei tre inceneritori a biomassa si usa cippato di legna vergine anzichè pellet, che, se costa di più, rende anche di più ?
- Vista la quantità di allevamenti zootecnici della nostra Provincia perchè non si costruiscono centrali (non so come chiamarle) per convertire il letame in biogas e con questo ottenere energia elettrica e calore  ?

1- Un inceneritore termico brucia cippato per scaldare l'acqua di un boiler che, poi, tramite condotte d'acqua di andata e ritorno, distribuisce calore a case,  palestra, scuola, casa protetta per anziani (teleriscaldamento ). Ma può anche essere usato per produrre elettricità. 
Immettendo vapore in pressione in un motore endotermico, si produce lavoro che, tramite un albero motore collegato ad una turbina, la fa girare producendo elettricità. Questa doppia produzione, di calore ed elettricità, viene definita cogenerazione. Questo è il caso di Monchio.
D'ora in poi, infatti, farà anche cogenerazione. 


- Un gassificatore brucia anche lui cippato, ma  a temperatura più bassa. Si innesca in tal modo un processo, detto pirolitico, di scomposizione molecolare che origina un gas di sintesi ( syngas) composto da idrogeno ( H2) anidride carbonica( CO2) e metano (CH4).
Tale  gas è molto sporco, pieno  di polveri. Deve essere depurato in vari  modi prima di poter essere utilizzato come combustibile per un motore endotermico che, poi, tramite un albero motore può far girare una turbina e produrre elettricità. Una parte del  calore prodotto dal motore endotermico può essere usato anche per scaldare un boiler e produrre teleriscaldamento.  E' sempre cogenerazione, cioè produzione di due cose.
L'inceneritore a cippato produce emissioni depurate solo meccanicamente,  con un filtro a ciclone, e convogliate direttamente in aria tramite camino.
Le emissioni del gassificatore non sono dirette.  Il camino è in corrispondenza dei motori endotermici che usano il syngas come combustibile  per muovere le turbine e produrre elettricità.

Entrambi, bruciando cippato fresco ad elevata umidità,  hanno scarso rendimento, forti emissioni nocive e  notevoli quantità di ceneri. Tali emissioni, oltre a metalli pesanti e ossido di azoto, contengono diossina perchè  qualsiasi sostanza vegetale o animale, se bruciata, produce idrocarburi ciclici aromatici che combinandosi col cloro libero nell'aria, anche solo quello della depurazione degli acquedotti, generano diossine.


2-Perchè la filiera studiata e promossa a livello regionale è quella di favorire l'uso diretto del bosco come fonte di biomassa, promuovere cooperative di taglio apposite e creare un mercato che ancora non c'è
del cippato a basso costo. La filiera proposta dalla Bresso nel 2009 era  costituita da : diradamento industriale del bosco-finanziamento pubblico delle  coop  di taglio-centrali a cippato cofinanziate-produzione di elettricità.
Se una centrale come quella di Palanzano, costata 426.000 euro, la si fa andare col pellet, ci si deve chiedere se non era meglio comprare 5 stufe automatiche a pellet, una per ogni edificio comunale,  del costo complessivo di 80-90.00 euro, detraibili al 55% in 10 anni dalle imposte.
In tal modo, con 50.000 euro di spese conto capitale si sarebbe ottenuto un riscaldamento con meno emissioni,  delocalizzato, più efficiente e senza gli ulteriori costi di costruzione del teleriscaldamento ( 500 euro al metro).
Fare una centrale per bruciare pellet,infatti, non ha senso per gli alti costi fissi iniziali, per quelli del teleriscaldamento ( a Monchio per 200 metri di teler. hanno speso 100.000 euro) e per l'elevato costo del pellet.


3- E'  la proposta di Reteambiente : piccoli biodigestori anaerobici, di potenza tarata sulla capacità  delle stalle e  sulla quantità di animali allevati, che producano elettricità col biogas.


Sarebbero di aiuto agli agricoltori per smaltire in modo corretto il letame, abbattendo il suo contenuto di azoto.
La cogenerazione e gli incentivi ricavabili da essa costituirebbero un aiuto alla difficile situazione  economica dei piccoli agricoltori e un contributo alle spese per lo smaltimento corretto dell'azoto. Ma la realtà  di tutta la  pianura padana è un'altra.
Un allevatore con una stalla di alcune centinaia di vacche può chiedere di impiantare un biodigestore da 999 Kw di potenza per smaltire letame e fare cogenerazione e, se  ha terra sufficiente, eventualmente affittata apposta, gli viene facilmente concesso, come è successo con quello di Corcagnano.
Quell'impianto produce biogas e tramite la sua combustione mille Kw all'ora di elettricità.
1.000 Kw/h x le 8000 ore in un anno,  fanno 8 milioni di kw/h, che alla tariffa di o,28 euro a kw/h fanno 2.230.000 euro di incentivi pubblici.
In più c'è la vendita dell'energia prodotta ad Enel : 8 milioni di Kw/h x 0,08 euro al Kw/h,cioè altri 640.00 euro, per un totale di circa 2,87 milioni di euro.
Per far funzionare un tale impianto occorrono circa 30.000 t. annue di materiale da biodigestare.
Una stalla di 200  vacche produce circa 4.000 t. annue di letame, le altre 26.000 t. le fanno arrivare via camion e sono composte da FARINA DI GRANOTURCO, PANELLO DI GERME DI GRANOTURCO,  MELASSO DI CANNA. In pratica mangimi vegetali per animali che contengono amidi al 39%, cellulosa al 6,5%, proteine al 12%. Sulla confezione c'è scritto da utilizzare come miscela di nutrienti per microorganismi. Provengono dal Cremonese,dove il 25% del terreno agricolo è affittato per produrre tali coltivi energetici.
Un impianto così costa tra 4 e 5 milioni, però fa incassare 2,87 milionio annui per 18 anni. Tolti i costi dei materiali, della manutenzione e di ammortamento del leasing restano circa 900.000 euro netti di guadagno annui. A tutti gli effetti non si tratta più di agricoltura, ma di processo industriale.  Dietro ogni allevatore ci può essere una finanziaria o  addirittura una banca o chi lo sa.
Di tali impianti  ne è  pieno il Cremonese. L'unico da 1 Mw attivo nel Parmense è quello già citato  tra Corcagnano e Carignano, vicino alla Star. Ne vogliono fare uno a S. Michele in Tiorre e un'altro a Nacca di Vaestano ( Palanzano).
Ce n'è un'altro a Selvanizza. Anche lì stalla di 200 vacche e impianato da 250 Kw che ha bisogno di 5-6.000 t. di tali mangimi e che fa incassare 560.000 euro all'anno.
Gli impianti per  trattare il letame  e ridurre il  tenore di azoto nei campi, di fatto, non esistono o sono quella roba qui. Il digestato che esce da tali impianti a biogas, infatti, è solo diminuito di volume ma contiene la stessa quantità di azoto iniziale. Per ridurre l'azoto fino al 70% sarebbe necessario anche un impianto SBR di denitrificazione, ma costa caro, andrebbe a rosicchiare quelle centinaia di migliaia di euro di utile netto.

Serioli Giuliano

martedì 10 luglio 2012

Reteambiente Parma e il Movimento 5 Stelle

La proposta di Favia, dei 5*, all'assemblea regionale, che qui di seguito riporto, è significativa del lavoro che stanno facendo sull'ambiente e della loro visione sull'argomento. In linea di massima, noi di reteambiente, siamo d'accordo con loro.
Tuttavia alcune differenze tra noi e i 5* vengono al pettine e le aveva già rimarcate Vagnozzi all'assemblea di Fornovo su Laterlite, dopo un mio intervento.  

Loro dicono 


1) bisogna limitare le coltivazioni energetiche e il loro uso negli impianti a biogas.

Noi diciamo : le coltivazioni energetiche tolgono spazio a quelle alimentari e non vanno fatte.


Non diciamo questo per scavalcarli, nè perchè siamo dei fondamentalisti.
Siamo convinti che gli impianti  a biogas debbono servire solo ad eliminare l'inquinamento da azoto dei suoli agricoli e quindi devono essere alimentati solo con reflui zootecnici, non con prodotti di coltivazioni dedicate. 
Di più, diciamo che la quantità di azoto che entra nell'impianto a biogas non deve essere la stessa di quella del biodigestato in uscita, che verrà poi sparso nei campi.
E' necessario abbattere il tenore di azoto del digestato del 70%, con tecnologie di depurazione. Queste sono costose e gli incentivi statali alla cogenerazione elettrica debbono servire proprio ad alleviare di tali costi gli agricoltori e gli allevatori. 
Noi affermiamo che gli impianti a biogas devono essere tarati sugli allevamenti. Debbono servire ad eliminare l'eccesso di azoto ammoniacale dai suoli agricoli. Nella food-valley, una vasta fascia degli stessi ne è largamente impregnata, al punto che il limite dell'azoto per ettaro è stato ridotto a 170 kg, dimezzandone il  valore usuale.
Diversamente, tali impianti a biogas sono solo speculazione industriale, che niente ha a che fare 
con l'agricoltura.
Gli scarti agro-alimentari sono altra cosa. Gli impianti a biogas che li usano andrebbero situati dove questi si producono, prevalentemente vicino ai mercati, non certo nelle campagne.

Loro dicono 
2) bisogna alimentare le centrali termiche a biomassa con gli scarti forestali.

Noi diciamo che gli scarti forestali esistono solo se si fanno tagli. 
Che nessun tagliaboschi o azienda di taglio recupera le ramaglie, piuttosto li lascia sul posto. Diciamo che nessuno fa più la pulizia del  bosco come una volta, quando in montagna c'era tanta gente e poca legna. 
Oggi la parola PULIZIA DEL BOSCO è un eufemismo, un non senso.
Affermiamo che l'attività di una cooperativa di raccolta delle ramaglie dei tagli altrui sarebbe antieconomica. Se una cooperativa raccogliesse scarti forestali sarebbero solo quelli dei suoi tagli, non altro. 
Quindi, affermiamo che per alimentare centrali termiche a legna è necessario tagliare dei boschi.E'  necessario un diradamento del bosco, con strade di servizio che permettano la raccolta delle ramaglie e la loro cippatura sul posto. Si tratta di un taglio industriale che ha bisogno di mezzi meccanici e di finanziamenti e la cui ragione d'essere economica non può essere il cippato o il suo mercato ma il mercato più remunerativo della legna da ardere. 
Affermiamo, perciò, che le "piccole" centrali termiche a legna andranno ad accrescere i tagli boschivi e ad alimentare ulteriormente la speculazione sulla legna da ardere. 
Ma la problematicità delle centrali termiche che bruciano legna non finisce qui. 
Per essere economiche, nonostante gli elevati costi fissi di impianto, devono bruciare cippato di legna vergine, cippato fresco. Non certo cippato di legna stagionata due anni, come i montanari sono soliti usare nelle loro stufe.
Ebbene, il cippato fresco ha un'umidità superiore al 50%  e la sua combustione ha un rendimento molto basso tra il 10 e il 15%, motivo per cui ne occorre tanto. Ma soprattutto tale cattiva combustione causa emissioni nocive e ceneri superiori a quelle effettivamente dichiarate dalle ditte costruttrici e automaticamente certificate da Ausl o Arpa, senza alcun minitoraggio effettivo.
In sostanza, le centrali termiche a cippato causano diradamento dei boschi, inquinamento dell'aria superiore a quello di stufe a pellet-legna che vorrebbero eliminare, inquinamento delle acque di superficie per lo scarico di quelle di raffreddamento e inquinamento del suolo per le
quantità di ceneri che vi verranno smaltite. 


Le decine di centrali termiche a cippato che la Provincia ha dichiarato di voler impiantare in Appennino, col contributo di finanziamenti regionali, contribuiranno a consumare le risorse naturali che sono l'unica ricchezza rimasta alla montagna su cui fondare il suo recupero sociale  ed economico.   

Serioli Giuliano


(La proposta di Favia)

L’Assemblea Legislativa dell’Emilia-Romagna:

Premesso che:

·         il contributo degli impianti di produzione di energia da biogas e da biomasse al raggiungimento degli obiettivi comunitari in tema produzione energetica e di tutela ambientale è fondamentale in ragione del fatto che questi impianti possono contribuire alla drastica riduzione di emissioni inquinanti, nel processo di produzione di energia, convertendo gli scarti della filiera agroalimentare in energia e ammendanti per l’agricoltura;

·         negli ultimi mesi si stanno moltiplicando, su tutto il territorio regionale, le proposte di impianti di produzione di energia elettrica attraverso la combustione di biomasse o la digestione anaerobica delle che non sono giustificati da una sufficiente copertura di scarti della citata filiera agroalimentare e che dovranno essere quindi alimentati attraverso l’impianto di colture dedicate, ovvero, nel caso di produzione da combustione di biomasse, anche attraverso l’importazione di prodotti ottenuti mediante lo sfruttamento intensivo di foreste vergini (ad esempio olio di palma) o di materiali di incerta provenienza;

·         la costante e continua conversione di porzioni di terreno dedicato a produzioni agricole di pregio a produzione di colture dedicate alla filiera energetica (il mais in particolare) sta mettendo a rischio non solo la qualità dei prodotti tutelati dai marchi di qualità, ma anche la stessa autonomia alimentare del paese, senza contare inoltre delle forti ricadute, in termini di emissioni inquinanti e disagi per i cittadini, derivanti dal traffico dei mezzi di trasporto dei materiali;

·         l’attuale sistema di incentivazione che attualmente non prevede nessuna modulazione mirata a finanziare solo gli impianti che utilizzano gli impianti virtuosi ad esempio filiera corta dei materiali, nessun utilizzo di colture dedicate, recupero del calore prodotto


Considerato che:

·         alla luce di quanto premesso le recenti linee guida, approvate dalla Regione Emilia-Romagna, si sono dimostrate non sufficientemente adeguate, alla definizione di un preciso quadro normativo finalizzato alla riconversione dell’attuale sistema industriale, di produzione energetica, in un sistema produttivo maggiormente rispettoso dell’ambiente, e quindi della salute, e delle caratteristiche socio economiche del territorio.

·         nella seduta dell’Assemblea legislativa del 26 luglio 2011 è stato approvato un ordine del giorno sull’individuazione delle aree e dei siti per l’istallazione di impianti di produzione di energia elettrica mediante l’utilizzo delle fonti energetiche rinnovabili con cui si è impegnata la Giunta regionale a provvedere in modo da:

·         coinvolgere l'intero sistema delle Autonomie Locali, anche attraverso l'elaborazione di loro piani energetici, capaci di governare il disegno localizzativo degli impianti, pianificare la loro alimentazione, predisporre efficaci ed efficienti sistemi di monitoraggio e di controllo;

·         privilegiare la realizzazione d'impianti ad alto rendimento energetico, in regime di cogenerazione e trigenerazione, evitando lo spreco energetico con la sola produzione di energia elettrica e sfruttando il calore per usi residenziali e industriali;

·         indicare che la biomassa necessaria per il funzionamento degli impianti provenga prevalentemente dagli scarti agro-alimentari e forestali o da colture energetiche collocate in aree del territorio dove si garantisca equilibrio fra colture agricole e dedicate, limitando la conversione della produzione agricola verso colture bioenergetiche;

·         prevedere la valutazione dell'intero ciclo di vita delle biomasse in modo da contemplare tutte le fasi di produzione agricola e di trasformazione ed i trasporti, in modo da privilegiare gli accordi di filiera corta nel rispetto di cui all'art. 2, lettera c), del Decreto del Ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali del 2 marzo 2010 Attuazione della legge 27 dicembre 2006, n. 296 sulla tracciabilità delle biomasse per la produzione di energia elettrica;


Valutato

·         Necessario ed urgente rivedere le Linee guida approvate dalla Regione Emilia-Romagna nel luglio scorso al fine di limitare questa eccessiva proliferazione di impianti che non solo impoveriscono i nostri terreni e quindi l’agricoltura di qualità ma, attraverso l’importazione dei materiali, annullano uno dei principali effetti positivi che il ricorso a questo tipo di energie produce, ovvero la riduzione delle emissioni inquinanti nella nostra Regione.


L’assemblea legislativa dell’Emilia Romagna:

·         a ridefinire il quadro normativo finalizzato al raggiungimento dei seguenti obiettivi:

·         evitare concentrazioni di impianti e i lunghi trasporti delle biomasse, prevedendo che l’autorizzazione alla realizzazione degli impianti venga concessa solamente a seguito dell’elaborazione di Piani Energetici Locali (comunali, sovracomunali, provinciali), che consentano di tenere conto della produzione e del consumo di energia a livello locale, delle conseguenti emissioni, e della disponibilità di biomasse per la produzione di biogas.

·         In questo modo si possono indirizzare gli impianti solo in quelle zone in grado di fornire biomassa locale sufficiente ad alimentare una centrale;

·         deciso limite alle colture dedicate, prevedendo il ricorso esclusivo o prevalente di reflui, sottoprodotti da allevamenti zootecnici, dall’agricoltura, dalle industrie agroalimentari e rifiuti organici prodotti dai cittadini, prevedendo inoltre l’obbligatorietà della rotazione triennale delle colture;

·         un attento e corretto utilizzo dei digestati che, se utilizzati in modo scorretto, si trasformano da risorsa per l’agricoltura, a fonte di inquinamento è necessario quindi prevedere norme più stringenti sul loro corretto utilizzo;

·         per quanto riguarda la produzione diretta di energia da biomasse, prevedere l’obbligatorietà del funzionamento in regime di cogenerazione e trigenerazione, con rendimenti non inferiori al 70%;

·         evitare l’aggiramento delle soglie limite previste per impianto attraverso la “frammentazione” delle richieste prevedendo che, in tutti i casi in cui più impianti ubicati nella stessa località possano essere ricondotti ad un solo imprenditore, si tenga conto della potenza complessiva degli impianti stessi ;

·         prevedere un preciso piano di monitoraggio e di controlli teso sia alla verifica e alla tracciabilità dei materiali in entrata sia ad un periodico controllo delle emissioni, dei digestati, dei sottoprodotti e degli scarti di lavorazione di questi impianti e del loro conseguente trattamento e/o smaltimento..


Bologna, venerdì 13 aprile 2012
Il Consigliere
Giovanni Favia
Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna - Viale Aldo Moro, 50 - 4

lunedì 9 luglio 2012

IL BOSCO,LINEA DI CONFINE

Negli ultimi anni la linea del bosco tende a salire verso l'alto.
Alberi contorti si insinuano tra le rocce delle pietraie, mettendovi radici.
Altri, più facilmente, colonizzano gli alpeggi, spuntando dove l'erba l'ha sempre fatta da padrona.
E' l'aumento della temperatura che sposta in su la linea del bosco.
Il rigore del gelo invernale non basta più a bloccare la risalita delle giovani matricine, perché anche in alto la neve e il ghiaccio durano di meno.
Se il confine del bosco sale verso l'alto, non c'è da gioire per l'aumento della sua estensione, perchè anche il confine delle sorgenti è costretto a salire, diminuendo la filtrazione dell'acqua all'interno delle rocce e la ricarica delle sorgenti.
Se il confine si sposta più in su, in Appennino tende a diminuire l'acqua disponibile.
E' il sintomo più evidente del cambiamento del clima dalle nostre parti.
Ma il bosco è soprattutto linea di confine verso il basso, verso ciò che di artificiale sale dalle città.
Con l'abbandono dei borghi, quel manto boschivo si è riunificato, si è esteso, ha marcato nettamente la sua linea di confine da tutto ciò che è artificiale, dalla presenza umana.
Ma ora tale linea è minacciata di nuovo.
Tagli sempre più estesi la interrompono, troncandola di netto fino alle cime.
E' la speculazione della legna da ardere che la divora, senza freno alcuno o regola vera. Nel silenzio assordante delle amministrazioni.
Il bosco è linea di confine dentro la natura, è un segnale del suo stato di salute.
E' linea di confine verso l'uomo e la sua pretesa di colonizzare tutto.
Se tale linea si consuma e viene a mancare, semplicemente il mondo muore.

Giuliano Serioli