"Non ho paura della cattiveria dei malvagi, ma del silenzio degli onesti". (Martin Luther King JR)

giovedì 16 giugno 2016

Casse di espansione, sì o no?

Un'opinione controcorrente ma a misura d'ambiente

Per messa in sicurezza "definitiva" di un corso d'acqua si intende generalmente la costruzione di una cassa d'espansione, o di laminazione, finalizzata al contenimento di eccezionali masse di acqua prodotte da eventi atmosferici particolarmente intensi.


Nel caso del torrente Baganza è stata prevista una escavazione lineare dell'alveo e delle parti laterali per circa 5 milioni di metri cubi.
L'abbassamento dell'alveo implica la migrazione dell'erosione sia a monte che a valle, compromettendo la struttura e la dinamica delle falde acquifere, soprattutto nelle zone di drenaggio, dove queste arrivano a convergere sul livello del torrente.
Mentre a monte il torrente alimentava le falde, l'abbassamento della quota di scorrimento non permetterà più una normale ricarica delle stesse.
A valle, dove le falde prima si riversavano in alveo, non più ostacolate dalla contropressione di acqua e ghiaia, verrà dispersa nel torrente una quantità di acqua molto maggiore, con grave calo delle stesse.
L'erosione provoca anche l'instabilità laterale del torrente con incisione delle sponde ed alterazione di tratti precedentemente stabili.
L'instabilità dell'alveo per l'erosione a valle può determinare l'instabilità di manufatti esistenti, come lo scalzamento dei piloni dei ponti.
Non solo. L'escavazione dell'alveo ha come effetto l'abbassamento del pelo dell'acqua del torrente e quindi delle falde ad esso connesse dal punto di vista idrogeologico. Con maggiori difficoltà di
approvvigionamento idrico in zona, eliminazione di aree umide e difficoltà per lo sviluppo della vegetazione ripariale così necessaria al trattenimento e alla difesa delle sponde.
Ma è proprio il concetto di "messa in sicurezza" che è sbagliato, perché anche se il progetto ha un tempo di ritorno teoricamente lungo, esiste oggi una forte probabilità che si verifichino piene sempre maggiori della precedente, dato il cambiamento climatico in atto.
In sostanza, se si progetta oggi la cassa d'espansione del Baganza ci si deve basare su dati meteo storici probabilmente già superabili nel brevissimo periodo.
E, nonostante i buoni propositi delle amministrazioni locali, nell'area "messa in sicurezza" è possibile che si continui ad edificare proprio per la pretesa sicurezza percepita e per la pressione che l'economia e la speculazione esercitano.
Le alternative.
Alla cassa di espansione si può contrapporre un'opera molto meno invasiva che non preveda così elevati volumi di scavo.
Un'area golenale collegata, tramite sfioratoi nelle arginature, alla campagna circostante.
Argini e sfioratoi costruiti direttamente dagli agricoltori della zona, con un prelievo di ghiaia dall'alveo meno invasiva e più diffusa, tale da non modificare il profilo longitudinale del torrente.
Ghiaia prelevata dagli stessi agricoltori da aree deputate a diventare laghi in caso di piena, serbatoi d'acqua da utilizzare a livello irriguo per la campagna della Pedemontana, già più volte in sofferenza nel periodo estivo.
I volumi di ghiaia sarebbero pari alla metà di quelli previsti dal progetto della cassa d'espansione e sarebbero utilizzati in loco.
Il problema del progetto attuale, infatti, è dato anche dal fatto di dove collocare con profitto quei grandi volumi di inerti, data la crisi ormai cronica dell'edilizia.
Il mancato smaltimento della ghiaia potrebbe spostare ulteriormente in là nel tempo l'edificazione della cassa, mentre il cambiamento climatico spinge ad una soluzione anche provvisoria, ma rapida e soprattutto coinvolgente.
Il tema di coinvolgere il territorio non è secondario. Attiene a chi esegue i lavori e ne ha un ritorno economico.
Col progetto della cassa si parla di 60 milioni di euro che finiranno fatalmente ad una grande azienda in grado di eseguire i lavori.
Col progetto alternativo si spende molto meno e quei soldi finiscono agli agricoltori della zona e a piccole aziende del comparto edilizio.
In tal modo è il territorio stesso a prendere in carico la sua sicurezza, a preoccuparsi degli eventi e a prevenirli.
Un vero e proprio salto di qualità culturale.
E un intervento a misura d'ambiente.
Desta infine meraviglia che la sezione locale di Legambiente si sia preoccupata delle necessità ecologiche dell'ambiente fluviale senza tener conto dei danni causati da un intervento così massiccio, senza indicare invece una soluzione alternativa sostenibile.

Giuliano Serioli
16 giugno 2016
Rete Ambiente Parma

salvaguardia e sostenibilità del territorio locale

giovedì 9 giugno 2016

Pedemontana, urge un progetto economico

In un recente video, Luca Mercalli, meteorologo e conduttore di Rai 3, tenendo fra le mani un pezzo di terra della bassa padana, afferma quanto sia grassa, corposa, la migliore che ci sia.
Viene subito in mente come la terra della nostra Pedemontana sia fin meglio, vista la ricchezza di sali minerali apportati dai torrenti di montagna.
Così ricca da produrre abbondanza: dal pomodoro al frumento, dal mais all'erba medica, base produttiva su cui si fonda l'intera economia del prosciutto e del parmigiano.


A vigilare sulla qualità dei prodotti ci sono i relativi consorzi.
Il primo prescrive come le cosce di maiale debbano necessariamente evere una età di 11 mesi ed essere italiane, anche se spesso poi sono invece solo di 8 mesi, gonfiate con antibiotici e di provenienza estera.
Il secondo bada che le aflatossine non finiscano nel mais e poi nel latte inquinando il grana e che lo spandimento di letame in aree sensibili non superi i 170 kg di azoto, anche se gli allevamenti industriali non sono mai sostenibili, visto il particolato che producono e le falde acquifere che inquinano.
Tutta questa ricchezza fatta di sapienze secolari e di microclimi ideali per le stagionature, ha sopra di sé i veleni di un'aria orribilmente inquinata.
Lo afferma la regione Emilia Romagna che definisce la nostra Pedemontana "zona rossa", dove qualsiasi nuovo impianto industriale dovrebbe essere a saldo zero di emissioni nocive, se non addirittura in grado di diminuirle.
Veleni veicolati dalle polveri sottili, che ogni anno superano i 35 sforamenti dei 50 microgrammi di PM10 consentiti dalla normativa.
Da chi sono prodotte? Dall'industria? Dal traffico veicolare? Dagli inceneritori di rifiuti?
Da tutti questi ma non solo.
Secondo Ispra per un terzo dal riscaldamento domestico da legna e pellet e per un altro terzo dalla ricombinazione secondaria dell'azoto ammoniacale degli allevamenti industriali.
Anche l'Istat non c'è andata leggera quando ha riferito del picco di mortalità, aumentato nel 2015 del 16,3% rispetto al 2014.
Un fatto accaduto solo durante le due guerre mondiali.
Un dato nazionale, spalmato su tutto il Paese, che è plausibile si riferisca principalmente al Nord Italia.
Sempre Ispra, il mese scorso, ha comunicato che il 65% delle acque superficiali sono inquinate e stessa cosa per il 32% delle acque sotterranee.
Nella pianura padana tali valori crescono rispettivamente oltre il 70% ed il 40%.
Ma quello che Istat ed Ispra non dicono è che la pianura padana è tappezzata da più di 1.000 centrali a biogas dell'ordine del MWe. Ognuna di queste produce 40 milioni di Nm3 di emissioni nocive annue, soprattutto ossidi di azoto, ma anche particolato secondario.
Moltiplicate il tutto ed otterrete un valore emissivo di 40 miliardi di Nm3, che sommato a quello delle centrali che bruciano cippato di legna, dall'Alto Adige all'Appennino, si arriva a un valore emissivo maggiore degli inceneritori del Nord Italia (una trentina).
L'inceneritore di Parma emette 144.000 Nm3/h, in un anno 1,3 miliardi di Nm3. Fate voi i conti.
Ci siamo battuti per anni contro gli inceneritori, li stiamo facendo dimagrire con la raccolta differenziata diffusa dai paesi alle città e le lobby delle biomasse ci ributtano addosso le stesse emissioni mefitiche con le centrali a biomassa.
Sulle rinnovabili si sono tuffate anche le grandi corporations dell'energia e del petrolio, trovando appetitosi gli incentivi pubblici e fregandosene dell'insostenibilità ambientale.
Comoda scusa è la direttiva Europea del saldo zero di emissioni di CO2 per le biomasse, che è già bugiarda per la legna e del tutto falsa per il grasso animale.
Scusa valida anche per istituzioni ed enti pubblici, pronti ad accettar per buone le autocertificazioni emissive delle lobby medesime.
Perché, diciamocelo, sono le industrie stesse a suggerire i limiti normativi, non certo le Ausl.
E' ora di chiedersi, infatti, perché le nostre normative sono cinque volte meno restrittive di quelle tedesche.
E la salute dei cittadini? E l'inquinamento della base agroalimentare da cui dipendono le nostre eccellenze?
Le normative igienico sanitarie europee sulla produzione del latte sembrano ritagliate sulle grandi stalle. Solo gli allevamenti industriali sono in grado di rispettare quella pletora incredibile di
norme burocratiche, le piccole stalle no, non ce la fanno.
E così devono chiudere proprio le stalle di montagna, quelle che lasciano ancora le vacche libere al pascolo.
Notare che è proprio l'azoto ammoniacale degli allevamenti industriali quello che emette il particolato secondario che grava sulla pianura padana.
Dovrebbero essere la Ue e l'Efsa a imporre lo strippaggio dell'ammoniaca anche per impedire che la sua lisciviazione finisca in falda, inquinandola come capita oggi.
Anche nei prosciuttifici, le normative igienico sanitarie e le norme sulla sicurezza del lavoro sembrano ritagliate sulle grandi aziende. Al punto che i piccoli, gli artigianali, sono proprio quelli maggiormente colpiti dai controlli e multati. Solo che una multa per una grande azienda è poca cosa e viceversa per una piccola.
Le grandi aziende hanno compresso i salari attraverso la robotica, espellendo manodopera specializzata ed attingendo alla manovalanza generica delle cooperative.
Tutto questo per produrre di più, a detrimento, però, della qualità del prodotto. Che, viceversa, i prosciuttifici artigiani hanno mantenuto alta, proprio attraverso manodopera qualificata.
In sostanza, sono i piccoli che mantengono e sviluppano la qualità.
Sono loro che continuano a valorizzare i marchi d'eccellenza e la possibilità di commercializzarli in Italia ed all'estero.
Sta ai consorzi, ma soprattutto ai comuni, incentivare la produzione di qualità e la crescita della piccola produzione.
Sono consapevoli che più un'azienda è grande più tende a finanziarizzare la propria attività, speculando sulla materia prima. Andando ad occupare segmenti industriali speculativi che esulano completamente dal settore lavorativo che le è proprio, come produrre elettricità dalla combustione del grasso.
Le eccellenze alimentari si sviluppano solo impedendo il degrado ambientale che ogni processo industriale comporta.
Tutto queste tematiche sono state portate in assemblee pubbliche per ben due volte ad esempio a Felino, prima delle amministrative. Gli argomenti sono stati condivisi largamente dalle due liste di opposizione al Pd, sia di centro destra che di sinistra, soprattutto sul no alle biomasse.
Eppure lo spirito di bottega ha prevalso ancora una volta. Ha impedito che si formasse una lista unica no inceneritore e no biomasse in grado di mandare a casa gli amministratori attuali.
Rete Ambiente Parma rimane in prima linea per un'alternativa sostenibile, sotto tutti i punti di vista.

Giuliano Serioli
9 giugno 2016

Rete Ambiente Parma

per la salvaguardia del territorio parmense