L'economia
liberista e la finanza internazionale che la governa non trovano
ostacoli alla loro espansione energivora.
Il
consumo non riguarda però soltanto l’energia, ma soprattutto
l'ambiente naturale dal quale essa viene estratta.
Tutte
le amministrazioni locali cercano di contemperare, a parole, l'uso
paesaggistico e turistico del bosco con "la sua valorizzazione
economica".
E’
il mantra di oggi.
Sono
consapevoli che i loro progetti di valorizzazione turistica
dell'Appennino sono del tutto falliti. Parlano di coesistenza dei due
aspetti, quando invece ormai puntano principalmente alla
liberalizzazione del taglio boschivo.
L'ultimo
fatto è la vendita all'impiedi di un'abetaia di 20 ettari nella zona
di Succiso per 0.80 euro a quintale per 4.500 quintali complessivi.
L'ha
venduta il Consorzio omonimo ad una ditta austriaca e ne ricaverà la
miseria di neanche 40.000 euro.
Non
è un caso isolato. La regione ha fatto nascere consorzi forestali
per organizzare minutamente tale spoliazione dei boschi, in modo da
non comparire direttamente.
I
consorzi raggruppano proprietari privati e proprietà pubbliche
indivise, le comunalie. Ci sono sempre meno cooperative di taglio
locali. I consorzi vendono ettari di bosco a ditte che sfruttano il
lavoro
nero di extracomunitari. Questo avviene soprattutto perché si è
sviluppata enormemente la produzione di stufe a pellet, oltre che
quella di centrali a biomassa.
La
domanda di legna da ardere dipende quindi dallo sviluppo del settore
industriale della combustione, che ha sostituto completamente il gpl
in montagna.
I
bomboloni del gpl, quando non dismessi, servono solo a cucinare. A
riscaldare si è tornati ad usare la legna.
Nei
nostri monti, la green economy ha prodotto solo combustione di
biomasse di legna. Con uno sviluppo abnorme di emissioni di polveri
sottili e sostanze cancerogene, come il benzopirene. Ma la
combustione di pellet si è sviluppata soprattutto nell'alta pianura.
I cilindretti di pellet derivano dalla lavorazione ad alta
temperatura e pressione della legna sminuzzata.
Siamo
arrivati al punto che le autorità che favoriscono i tagli boschivi
sono le stesse che dal 1° ottobre 2018 impongono di non accendere le
stufe a pellet sotto i 350 metri di altitudine, nella fascia di alta
pianura dove è massima la loro diffusione e dove costante è la nube
di polveri gravemente nocive alla salute.
Sono
temi con cui occorre confrontarsi da subito.
Si
tende a credere che tecnologie innovative risolveranno qualsiasi
problema, ma non è ciò che sta avvenendo. Le innovazioni
tecnologiche nella combustione di biomasse non riescono a garantire
filtri sufficienti a fermare l'emissione di polveri, come il
gravissimo dato di emissione di benzopirene in Trentino Alto Adige
conferma, e quindi portano all'abnorme sviluppo di sostanze nocive
nella pianura Padana, già congestionata dai fumi industriali.
Al
punto che dopo aver venduto centinaia di migliaia di stufe si è
arrivate al paradosso di vietarne l'accensione.
Non
occorrono tanto tecnologie, quanto strategie per affrontare la
questione delle risorse naturali con una popolazione che cresce
esponenzialmente.
Per
affrontare i temi ecologici impellenti, l'enorme espandersi
dell'urbanizzazione nel pianeta, le migrazioni che non cesseranno
perché spinte sempre più dall'impoverimento dei più e dal
vorticoso circolare di immagini di ricchezza del primo mondo.
L'immaginario
attuale ci ripropone di continuo una soluzione globalista dei
problemi, intesa come sviluppo economico-finanziario incessante. Ma è
pura mitologia. Occorre pensare invece a soluzioni per il piccolo,
per micro comunità immerse nella natura, opposte a metropoli senza
fine come suggerisce l'attuale economia di scala. Architetture
semplici, integrate nella natura, invece di grattacieli che superino
le nuvole come nelle metropoli.
Occorre
pensare alla montagna e ai boschi come ad un bene da conservare ed
accrescere non solo per lo sviluppo turistico, ma soprattutto per
piccoli insediamenti produttivi agricoli e di allevamento animale.
Non ha senso che non ci siano mucche al pascolo in montagna e che
siano costrette in allevamenti industriali in cui non vedono mai il
cielo e l'erba, come a Selvanizza, Monchio e Tizzano.
Il
progresso non è tanto nell'evoluzione tecnologica quanto in quella
morale, in cui inquadrare lo sviluppo industriale medesimo.
La
produzione di merci non deve essere fine a se stessa, cioè tesa alla
massimizzazione del profitto e alla distruzione di risorse, ma
contemperare la conservazione delle stesse. Anche perché una
produzione di merci sempre più massiccia ci porterà presto alla
loro invendibilità, ad una crisi di sovraproduzione che creerà
un'ennesima crisi finanziaria, come le attuali bolle del debito
preconizzano.
Occorre
pensare il futuro come liberazione da ogni forma di prevaricazione,
liberazione da ogni domesticazione dell'uomo attraverso immagini di
potere e ricchezza. Occorre fermare tutto questo, investire più
sull'innovazione sociale che tecnica.
Occorre
un'innovazione che scardini il principio della proprietà e della
divisione del lavoro che la società automatizzata dovrebbe
addirittura amplificare.
Giuliano
Serioli
Rete
Ambiente
Parma
salvaguardia
e sostenibilità del
territorio