"Non ho paura della cattiveria dei malvagi, ma del silenzio degli onesti". (Martin Luther King JR)

venerdì 28 dicembre 2018

DIGHE,CASSE E PERICOLO ALLUVIONI

Si fa un gran parlare di dighe e casse d'espansione quali soluzioni definitive ai problemi posti dalle ultime alluvioni.

Il tempo di ritorno di un evento meteo, come una forte pioggia, o addirittura un'alluvione, è T= 1/p. In cui p è la probabilità.

Quando T =1/100 vuol dire che la probabilità che un evento capiti negli anni a venire è dell'1%. Quando T =1/1000 e dell'uno per mille.

L'alluvione che ha colpito la città nell'ottobre 2014 ha avuto un tempo di ritorno duecentennale, T=1/200.

Cioè la probabilità che si verifichi altre volte è molto bassa statisticamente.

Ma la statistica riguarda lo storico delle alluvioni già avvenute, non contempera variabili nuove come il cambiamento climatico in atto.

Peraltro, come riportato in studi del prof. Valloni, già in passato il livello di piogge che ha colpito il nostro Appennino era incredibilmente predittivo di ciò che sarebbe successo dopo : nel 1970 il livello di piogge a Marra aveva un tempo di ritorno addirittura millenario dopo 9 ore di pioggia. L'Appennino settentrionale, come ci testimonia la Liguria, non è solo colpito da nord ma è barriera perpendicolare ad ogni sistema di nubi che arrivi da sud.

Col cambiamento climatico in atto non è solo in grave pericolo alluvioni la Liguria, ma anche l'alta pianura dell'Emilia, l'altro versante del Nord Appennino.

Le dighe in montagna per prevenire le alluvioni in pianura sono pura follia.

Quella di Vetto di cui si parla, ma anche quella ipotizzata ad Armorano in val Baganza, finirebbero con l'essere una enorme occupazione di suolo montano e soprattutto distruzione di boschi con una misera produzione di energia eletterica a meno che non si voglia che il salto sia massimo e l'acqua raggiunga il colmo stagionale.

Cosa estremamente pericolosa. Infatti, in caso di forti piogge a monte, l'acqua tracimerebbe dalle dighe provocando un disastro peggiore dell'alluvione medesima.

In più, le fondamenta necessarie alla costruzione di una diga bloccherebbero del tutto la corrente di subalveo che alimenta le conoidi di sbocco dei torrenti nell'alta pianura, il cui spessore arriva anche a 100 metri, togliendo acqua ai pozzi che servono ad irrigare i coltivi, già di loro non sufficienti alla bisogna.

Quindi anche la funzione irrigua, tramite canalizzazioni, delle dighe stesse sarebbe vanificata dall'interruzione della corrente di subalveo.

Da una parte si darebbe acqua e dall'altra la si toglierebbe.

Un non senso logico ed uno sperpero di soldi pubblici.


La ipotizzata diga di Vetto, di cui si è tornato a parlare in alto loco, fa male alla montagna.

L'invaso così creato si riempirebbe rapidamente di sedimenti apportati dall'Enza e dal Cedra, data la litologia prevalentemente argillitica del substrato roccioso.

Quella massa d'acqua dell'invaso che si produrrebbe avrebbe un effetto anche sui versanti montani, creando frane e dissesti.

Quanto al preconizzato vantaggio turistico occorre pensare all'effetto che i sedimenti argillitici avranno sulla colorazione del lago, non dissimile dalle acque grigiastre dell'invaso di Mignano nel Piacentino in cui, per di più, circa il 20% del volume invasato viene a disperdersi per percolazione, infiltrazione ed evaporazione prima che l’acqua giunga alla bocca di presa dell’agricoltore.

Lo stesso direttore dell'Agenzia di bacino del Po ammette che la cassa d'espansione del Casale di Felino non è sufficiente a fermare le piene che arriveranno col cambiamento climatico. Che occorreranno anche tracimazioni controllate.

Ma è ciò che sosteniamo noi!

Perchè allora spendere 1,7 milioni per un studio esecutivo della cassa della durata di un anno se non risolve il problema alluvioni?

Perchè soprattutto spendere 61 milioni per costruirla che diventeranno sicuramente 80 a lavori ultimati?

Perchè costruire una cassa al Casale che non garantisce da alluvioni nemmeno Colorno?

Quando la soluzione c'è e costa molto meno.

Quando la soluzione delle tracimazioni controllate permette di modulare gli interventi a seconda dei cambiamenti in atto, allagando parti di campagna nei mesi di fine ottobre/novembre quando i coltivi sono stati già raccolti, attraverso sfioratoi negli argini direttamente collegati al monitoraggio delle piagge in alta montagna?

Risarcendo direttamente gli agricoltori, coivolti in tal modo in una DIFESA ATTIVA, con costi molto inferiori a quelli della cassa?

la gente ormai ha capito, le grandi opere servono solo a chi le costruisce per far soldi.

giovedì 20 dicembre 2018

Rischi idrogeologici a Colorno

Comunicato stampa dell'ing. Roberto Colla membro del coordinamento per i rischi idrogeologici, del gruppo AMO - COLORNO:
Il giorno 7 dicembre presso la sala del consiglio comunale di Colorno, si è svolto un importante incontro riguardante le opere realizzate da Aipo ed Enti assimilabili (Autorità di bacino e Bonifica Parmense) per le difese idrauliche dei territori. 
Le dettagliate descrizioni di opere nei centri abitati rivolte a difese puntuali dei punti critici hanno evidenziato da subito una impostazione idraulico/filosofica molto discutibile. Si è parlato di milioni di euro spesi in interventi tesi a rinforzare strutture portanti sempre in crisi per le enormi pressioni idrodinamiche nelle fasi di piena. Ricordo, molto stupito, di un dilemma su aperture vetrate con wasistas (?!) per far sfiorare i portici della Reggia....Oppure di rinforzi dei ponticelli soggetti a incoerenti spinte trasversali. Se questi denari fossero stati messi a disposizione per sottrarre definitivamente le piene dai centri abitati, oggi non ci sarebbero più problemi. E così si è chiesto ai tecnici di Aipo come mai non si sono indirizzati verso le cosiddette "tracimazioni controllate" nonostante la pubblicità fatta. Secondo loro trattavasi esclusivamente di far sormontare dalle acque le arginature esistenti in zone ben definite. Caso raro. Secondo noi trattasi invece di ogni presidio idraulico teso a scaricare le acque in aree esterne all'alveo, come diversivi, traverse, scolmatori, sfiratori, ecc. fattibili in ogni conformazione geomorfologica, come ad esempio nell'alveo inciso del Baganza. Chiariti i termini, sono iniziati i dubbi. Forti dubbi. Interesse di Aipo è continuare a lavorare puntualmente per tentare di difendere i centri abitati agendo in funzione dei livelli di piena, peraltro in perenne aumento, vuoi per le piogge pazze di oggi, vuoi per le continue diminuzioni degli attriti dovuti a folli disboscamenti o interventi in alveo. Soprattutto facendosi finanziare a suon di milioni. Ma non certo per costruire opere definitive. Un Sindaco accorto allora dovrebbe cominciare ad avere anch'esso i nostri dubbi; in Università hanno sofisticati programmi che determinano le zone esondabili dei bacini fluviali in funzione delle portate, egli dovrebbe utilizzarli per appaltare le facili opere di pubblica utilità per una difesa definitiva, semplicemente facendosi dirottare i finanziamenti continuamente mal spesi da Aipo. In pratica si tratterebbe per lo più di scavare canali derivatori verso laghetti di accumulo, molto utili per l'irrigazione estiva. Progettazione scartata, come affermato da Aipo, con motivazioni assolutamente risibili: costi eccessivi e mancanza di aree esondabili. È esattamente l'opposto. I costi sarebbero decine di volte inferiori e le aree esondabili nei bacini pluviali di pianura sono praticamente infinite.....ma soprattutto il tutto si risolverebbe in pochi mesi. Altro importante risultato sarebbe la verifica, per quanto occorrer possa, della inutilità delle costose e devastanti casse di espansione. Ma in tal modo.....ad Aipo cosa resta? 
Forse però la situazione più delicata e assurda spetta ai perenni alluvionati. Mentre le esondazioni/tracimazioni controllate/programmate difenderebbero in maniera veloce ed efficace i centri abitati, l'impostazione di Aipo lascia tutto tal quale ed incerto per anni a venire. Compreso la cassa di espansione di Casale, la quale, anche se realizzata, potrebbe non essere di capacità sufficente. Oltretutto nessuno sa cosa succede con determinate piogge nel bacino che sottende l'alveo nel tragitto verso Colorno!. La prova è che, secondo i loro sofisticati (?!) calcoli, Colorno non si sarebbe dovuta allagare con la piena ultima di un anno fa. Quindi ai calcoli nessuno deve più credere. Chi, come noi, li ha sperimentati sa che, ad iniziare dalle piogge storiche, dai coefficienti di attrito o di permeabilità e per finire alle portate solide, molto meglio è l'esperienza del barcaiolo/pescatore.
Ing. Roberto Colla
Coordinatore rischi idrogeologici
AMO - COLORNO

mercoledì 21 novembre 2018

Felino, un convitato di pietra


Un patto di fiume nemmeno cominciato.
Un semplice elenco di cose da fare, senza contenuti che le tenessero assieme.
Tanta gente in un posto angusto che il sindaco di Felino Elisa Leoni voleva trasformare in un successo della sua iniziativa burocratica, senza riuscirvi.
I dirigenti di Aipo e il sindaco di Felino (dagli altri paesi, nessuno) si aspettavano quattro gatti volenterosi da piazzare ai tavoli, a cui far vedere alcune slide e raccogliere solo piccole osservazioni su qualche problema di strade o frane collegate al decorso del torrente Baganza.
Ma l'incontro come lo intendevano è saltato.



Non era materialmente possibile dividersi in tavoli, non c'era spazio e c'era troppa gente.
Soprattutto si sentiva nell'aria che ci si si aspettava dell'altro.
Cesare Azzali, presidente dell’Unione Industriali, ha posto subito la questione di sostanza.
Non bastava un elenco di temi generici, occorreva un'analisi, un contesto in cui inserire i vari temi di una problematica idrogeologica lungo l'asse del torrente. Visto che non veniva data né ce n'era l'intenzione si è alzato per andarsene.
A quel punto, per fermare L'Unione Industriali e cercare di salvare l'incontro, è intervenuto Meuccio Berselli di Aipo, che ha cercato di mediare tra l'esigenza di capire più in generale i problemi e la necessità di Aipo di avere delle carte compilate di problemi specifici lungo l'asse torrentizio e viario.
Mediare tra due esigenze, un dibattito a tutto campo e un incontro solo tecnico, ormai era impossibile.
Retetambiente Parma ha posto lo stesso tema di Azzali: non è possibile entrare nei dettagli se prima non viene fatta un'analisi a 360 gradi.
Il ruolo del bosco e dei tagli boschivi nel creare punti critici in caso di forti piogge, che porterebe a valle tutte le ramaglie abbandonate dopo i tagli.
Il problema del 20% di franosità del territorio montano che avrebbe concorso in modi differenti nel creare altrettante criticità.
Infine il vero convitato di pietra dell'incontro, la cassa d'espansione sul Baganza, adottata da Aipo. Tema, non a caso, sollevato da Luigi Fereoli chiedendo la possibilità di discutere eventuali alternative.
Aipo ha ribadito che il tema cassa fosse chiuso definitivamente e non all’ordine del giorno.
A quel punto Meuccio Berselli ha capito la piega che stava prendendo l’incontro e se ne è andato.
Se ne sono andati, poi, Cesare Azzali e quelli dell'Unione Industriali, che pochi giorni prima avevano avanzato sui giornali un progetto alternativo alla cassa d'espansione sul Baganza a firma di Stefano Orlandini, ordinario di costruzioni idrauliche di Unimore, che prevede una diga di contenimento ad Armorano, sopra Calestano.
Ha abbandonato l’incontro Reteambiente Parma e l'ingegner Roberto Colla, del comitato di Colorno, che in alternativa propongono di alzare gli argini del Baganza con sversamenti controllati nelle campagne a fianco, in caso di piena, per trattenere l'acqua in laghetti lungo l'asta del torrente in modo da usarla a livello agricolo durante la siccità estiva.
Il convitato di pietra si era fatto largo: si voleva ridiscutere della Cassa sul Baganza. Aipo no. Così è finita l'assemblea ed è saltato il Patto di fiume a Felino. Anche il Comitato contro la Cassa d'espansione ha abbandonato.
Non si poteva discutere di cosa fare in alto senza esser d'accordo su cosa fare in basso.
Una pietra sopra il patto.

Giuliano Serioli

Rete Ambiente Parma
salvaguardia e sostenibilità del territorio

lunedì 5 novembre 2018

Boschi in fumo


Pare che l'Istat non raccolga più dati sui tagli di legname nel nostro paese dal 2017.
Fino al 2016 però sono disponibili tutti i dati relativi.
Il Bilancio Energetico Nazionale riporta che nel 2016 il consumo di legna da ardere in Italia si è assestato su 25 milioni di tonnellate.
Circa il 20% di famiglie italiane si serve di legna da ardere per il riscaldamento.



Infatti negli ultimi anni sono state vendute 2 milioni di stufe a pellet e circa 300 Mega Watt termici ed elettrici sono stati prodotti dalle centrali a biomassa, frutto della speculazione che la cosiddetta green economy perpetua sulle nostre bollette, incamerando gli incentivi per la produzione di energia
"verde" e rilasciando in cambio polveri sottili e veleni per tutta la penisola.
Le centrali a biomassa, dall'Alto Adige alla Calabria, passando per Russi in Emilia, producono energia elettrica, disperdendo la gran parte di quella termica, e vengono alimentate quasi del tutto da legna importata dall'estero via nave, catalogata come scarto di deforestazione.
Sono esattamente i 3,3 milioni di tonnellate che troviamo nella relazione del Bilancio Energetico Nazionale quale legna importata.
A bilancio figurano quindi non più di 2 milioni di tonnellate di legna di produzione nazionale. Sembrerebbe che il prelievo di legna dai nostri boschi sia di conseguenza quasi nullo.
La superficie forestale del nostro paese, infatti, è di 10 milioni di ettari, cioè 100.000 km quadrati, un terzo della superficie del Paese.
A causa dell'abbandono della fascia montana dell'Appennino, tale superficie boscata ha un ritmo di crescita eccezionale, 1.000 metri quadrati al minuto, cioè circa 500 km quadrati all'anno.
Vuol dire che la superficie boscata immette ogni anno 5,45 milioni di tonnellate di legna prelevabile in più. Proprio uguale a quei 5,3 milioni di tonnellate di legna registrati a bilancio tra quella prodotta in chiaro e quella importata.
Occorre considerare però che l’accrescimento naturale non corrisponde ad alberi in più ma ad apparato fogliare accresciuto e cimali soltanto.
Ma allora tutti gli articoli di giornale sui tagli dissennati dei boschi, sui prelievi eccessivi che mettono a rischio frane il nostro paese sono una bufala?
Ovviamente no.
Se al consumo di legna da ardere (25 milioni di tonnellate) togliamo l'accrescimento naturale dei boschi, le importazioni e il taglio dichiarato in chiaro (in totale 10,3 milioni di tonnellate) restano ben 15 milioni di tonnellate di legna tagliata “in nero” sui monti del nostro paese.
Le autorità nazionali e locali che si vantano della crescita costante dei boschi, che è solo apparato fogliare in più, fanno finta di niente sui tagli nascosti.
Se la legna prelevabile cresce naturalmente ogni anno di 5 milioni di tonnellate, nello stesso tempo cala di 20 milioni di tonnellate per i tagli nascosti.
Il saldo negativo è evidente: ogni anno perdiamo 1.500 km quadrati di boschi, cioè 150.000 ettari (-1,5% ogni anno).
Lo mettiamo in rilievo, parliamo di boschi e non di superficie boschiva.
I nostri burocrati locali faranno a gara per rispondere a gran voce che non si perde niente, che non si tratta di superficie boschiva, che i boschi ricrescono.
A loro rispondiamo in anticipo che quelle superfici metteranno trent'anni a tornare come prima.
Ogni anno perdiamo una quota di bosco.
I tagli avvengono soprattutto sull’appennino tosco emiliano e su quello ligure, le zone più vicine alla grande diffusione di stufe a pellet, che quindi in questi ultimi 10 anni piccole matricine o piante di pochi anni hanno preso il posto di boschi invecchiati su circa il 25% della superficie boschiva di queste aree.
I tagli rasi sono quasi la totalità, lasciando solo cespuglieti.
Il danno idrogeologico è immane a fronte del cambiamento climatico.
Ci saranno sempre meno radici di piante adulte a trattenere i pendii del nostro Appennino, strutturalmente franoso di suo.
La superficie foliare, capace di contrastare le bombe d'acqua, sarà sempre minore.
Ne risentirà il paesaggio e il turismo, fonte principale di introiti economici per la nostra montagna.
Gli introiti della gran parte dei tagli vanno ad aziende che pagano in nero gente dell'Est Europa, esentasse.
Di questi soldi niente o poco rimane ad alimentare le economie dei borghi sempre più abbandonati, che devono ricorrere all'unità con comuni limitrofi per poter garantire i servizi minimi con economie di scala.
I dati sono tratti dal convegno promosso da AIEL del 23 febbrario 2018.

Giuliano Serioli

Rete Ambiente Parma
salvaguardia e sostenibilità del territorio

sabato 20 ottobre 2018

Biomasse, una coltre nera nei polmoni


I tagli dissennati sul nostro appennino si susseguono.
Taglio raso di un'abetaia di 20 ettari nel reggiano a Succiso. Taglio sul Lavecchio e sul Fuso, su pendii ripidi attorno e sopra i 45° di pendenza, tali da provocare frane di scorrimento di un suolo strutturalmente sottile per le caratteristiche di impermeabilità del flysch omonimo.


Tutta la nostra montagna è soggetta a tagli sconsiderati di boschi. Motoseghe in mano a operatori dell'Est che lavorano in nero e che utilizzano attrezzature industriali per tagliare, cippare, trasportare, trasformando sentieri in carraie e mettendo a rischio interi pendii alle prime forti piogge.
Se qualcuno pensa ancora che l'energia da biomasse sia stata concepita per nobili fini ambientali si sbaglia di grosso.
Gli “scarti” legnosi sono ormai tutti diretti alle centrali a biomassa con grave danno anche all'industria del mobile che da questi scarti ricavava pannelli multistrato.
E' l'import, quindi, che sostiene la speculazione.
Alla scusa della pulizia dei boschi non crede più nessuno.
Pellet dalla Germania che utilizza legname bielorusso, pellet che viaggia per centinaia di km per tutta Europa. O cippato e ramaglie dall'Austria, dalla Croazia. Ma ci sono anche navi che portano in Europa materiale legnoso dall’Estremo Oriente e dalle Americhe, dove si tagliano foreste naturali. O cippato da piantagioni a rapida crescita (con uso di ogm e pesticidi) lungo il corso del Po.
L'uso di energia da biomasse non provoca solo aumento di polveri sottili ma anche di pericolosi microinquinanti. Nei fumi che si crerano con la combustione del legno sono presenti sostanze tossiche e cancerogene quali benzene, formaldeide, idrocarburi policiclici aromatici (IPA), diossine, polveri fini ed ultrafini.
Un preciso marker è il benzopirene, una molecola da tempo classificata come cancerogena: dove si brucia legna la presenza di benzopirene aumenta nettamente. Eppure anche in aree critiche come la Pianura Padana, dove la soglia massima di benzopirene di 1 nanogrammo (milionesimo di grammo) fissata dalla Ue è già superata, si autorizzano centrali a cippato e a scarti legnosi da diversi megawatt termici se non decine e decine come in Trentino-Alto Adige o in Puglia e Calabria.
Mentre una centrale termoelettrica con caldaia e turbina alimentata a cippato ha una efficienza elettrica del 15%, una centrale termoelettrica moderna a gas naturale “turbo-gas” ha efficienze elettriche del 60%. Unita alla grande differenza nelle emissioni. Una centrale a biomasse legnose dovrebbe rispettare limiti di 20-30 mg/Nmc (metro cubo normalizzato alla pressione atmosferica e alla temperatura di 0°C.) di polveri totali. Una centrale a gas naturale emette polveri totali in misura inferiore a 1 mg/Nmc.
Enel, però, sottoutilizza le centrali a turbo-gas per obbedire al diktat dell'immissione prioritaria in rete di energia elettrica da biomasse. In Pianura Padana è un attentato alla salute, la scelta consapevole di far morire delle persone in più per favorire una pura speculazione finanziaria.
Studi epidemiologici sperimentali evidenziano una possibile correlazione tra esposizione a fumo di legna e effetti sulla salute.
Diminuita funzionalità polmonare, ridotta resistenza alle infezioni, aumento dell'incidenza e della gravità dell'asma. L'esposizione a fumo di legna produce effetti simili a quelli dell'inalazione di particelle da combustione di combustibili fossili. Forse peggio, come evidenziano statistiche che calcolano 480.000 morti in Europa per particolato e fumi.
Ci stiamo annerendo tutti quanti.
E solo per una questione di business.

Giuliano Serioli
Rete Ambiente Parma
salvaguardia e sostenibilità del territorio

lunedì 8 ottobre 2018

Energia, ambiente, sostenibilità


L'economia liberista e la finanza internazionale che la governa non trovano ostacoli alla loro espansione energivora.
Il consumo non riguarda però soltanto l’energia, ma soprattutto l'ambiente naturale dal quale essa viene estratta.
Tutte le amministrazioni locali cercano di contemperare, a parole, l'uso paesaggistico e turistico del bosco con "la sua valorizzazione economica".
E’ il mantra di oggi.
Sono consapevoli che i loro progetti di valorizzazione turistica dell'Appennino sono del tutto falliti. Parlano di coesistenza dei due aspetti, quando invece ormai puntano principalmente alla liberalizzazione del taglio boschivo.
L'ultimo fatto è la vendita all'impiedi di un'abetaia di 20 ettari nella zona di Succiso per 0.80 euro a quintale per 4.500 quintali complessivi.
L'ha venduta il Consorzio omonimo ad una ditta austriaca e ne ricaverà la miseria di neanche 40.000 euro.
Non è un caso isolato. La regione ha fatto nascere consorzi forestali per organizzare minutamente tale spoliazione dei boschi, in modo da non comparire direttamente.
I consorzi raggruppano proprietari privati e proprietà pubbliche indivise, le comunalie. Ci sono sempre meno cooperative di taglio locali. I consorzi vendono ettari di bosco a ditte che sfruttano il
lavoro nero di extracomunitari. Questo avviene soprattutto perché si è sviluppata enormemente la produzione di stufe a pellet, oltre che quella di centrali a biomassa.
La domanda di legna da ardere dipende quindi dallo sviluppo del settore industriale della combustione, che ha sostituto completamente il gpl in montagna.
I bomboloni del gpl, quando non dismessi, servono solo a cucinare. A riscaldare si è tornati ad usare la legna.
Nei nostri monti, la green economy ha prodotto solo combustione di biomasse di legna. Con uno sviluppo abnorme di emissioni di polveri sottili e sostanze cancerogene, come il benzopirene. Ma la combustione di pellet si è sviluppata soprattutto nell'alta pianura. I cilindretti di pellet derivano dalla lavorazione ad alta temperatura e pressione della legna sminuzzata.
Siamo arrivati al punto che le autorità che favoriscono i tagli boschivi sono le stesse che dal 1° ottobre 2018 impongono di non accendere le stufe a pellet sotto i 350 metri di altitudine, nella fascia di alta pianura dove è massima la loro diffusione e dove costante è la nube di polveri gravemente nocive alla salute.
Sono temi con cui occorre confrontarsi da subito.
Si tende a credere che tecnologie innovative risolveranno qualsiasi problema, ma non è ciò che sta avvenendo. Le innovazioni tecnologiche nella combustione di biomasse non riescono a garantire filtri sufficienti a fermare l'emissione di polveri, come il gravissimo dato di emissione di benzopirene in Trentino Alto Adige conferma, e quindi portano all'abnorme sviluppo di sostanze nocive nella pianura Padana, già congestionata dai fumi industriali.
Al punto che dopo aver venduto centinaia di migliaia di stufe si è arrivate al paradosso di vietarne l'accensione.
Non occorrono tanto tecnologie, quanto strategie per affrontare la questione delle risorse naturali con una popolazione che cresce esponenzialmente.
Per affrontare i temi ecologici impellenti, l'enorme espandersi dell'urbanizzazione nel pianeta, le migrazioni che non cesseranno perché spinte sempre più dall'impoverimento dei più e dal vorticoso circolare di immagini di ricchezza del primo mondo.
L'immaginario attuale ci ripropone di continuo una soluzione globalista dei problemi, intesa come sviluppo economico-finanziario incessante. Ma è pura mitologia. Occorre pensare invece a soluzioni per il piccolo, per micro comunità immerse nella natura, opposte a metropoli senza fine come suggerisce l'attuale economia di scala. Architetture semplici, integrate nella natura, invece di grattacieli che superino le nuvole come nelle metropoli.
Occorre pensare alla montagna e ai boschi come ad un bene da conservare ed accrescere non solo per lo sviluppo turistico, ma soprattutto per piccoli insediamenti produttivi agricoli e di allevamento animale. Non ha senso che non ci siano mucche al pascolo in montagna e che siano costrette in allevamenti industriali in cui non vedono mai il cielo e l'erba, come a Selvanizza, Monchio e Tizzano.
Il progresso non è tanto nell'evoluzione tecnologica quanto in quella morale, in cui inquadrare lo sviluppo industriale medesimo.
La produzione di merci non deve essere fine a se stessa, cioè tesa alla massimizzazione del profitto e alla distruzione di risorse, ma contemperare la conservazione delle stesse. Anche perché una produzione di merci sempre più massiccia ci porterà presto alla loro invendibilità, ad una crisi di sovraproduzione che creerà un'ennesima crisi finanziaria, come le attuali bolle del debito preconizzano.
Occorre pensare il futuro come liberazione da ogni forma di prevaricazione, liberazione da ogni domesticazione dell'uomo attraverso immagini di potere e ricchezza. Occorre fermare tutto questo, investire più sull'innovazione sociale che tecnica.
Occorre un'innovazione che scardini il principio della proprietà e della divisione del lavoro che la società automatizzata dovrebbe addirittura amplificare.

Giuliano Serioli

Rete Ambiente Parma
salvaguardia e sostenibilità del territorio

martedì 28 agosto 2018

Inceneritore di Parma e prospettive per un futuro sostenibile

Lettera aperta
al Sindaco di Parma Federico Pizzarotti
all’Assessore all’Ambiente Tiziana Benassi

Parma, 28 agosto 2018

Come tutti i cittadini abbiamo avuto modo di seguire le ultime vicende relative all’impianto di incenerimento di Iren, situato ad Ugozzolo, ed in particolare la richiesta di incremento della capacità autorizzata di combustione (da 130.000 t/a al “carico termico” ovvero circa 190/195.000 t/a) inoltrata dallo stesso gestore.


Abbiamo letto l’accordo sottoscritto il 30 luglio tra Regione, Comune ed Iren, in cui quest’ultima “autolimita” la quantità di rifiuti all’inceneritore a 130.000 t/a, estendendo il territorio di conferimento oltre alle Province di Parma e Reggio Emilia (aggiunta nel 2016) alla Provincia di Piacenza.
Lo stop all’incremento è un passo in avanti ma è solo momentaneo e non del tutto rassicurante.
Da quel che si è capito il contenuto dell’accordo andava trasferito nella modifica autorizzativa, precisando che l’accordo cessa di efficacia al 31.12.2020, ovvero in corrispondenza al termine di validità del Piano regionale rifiuti che individua i flussi di rifiuti urbani da inviare anche all’impianto di Parma, “senza che ciò comporti la necessità di modifica dell’autorizzazione integrata ambientale” e comunque nel “rispetto della normativa nazionale e della pianificazione regionale”.
Dal sito regionale abbiamo scaricato il nuovo atto autorizzativo (determina ARPAE 3992 del 2 agosto 2018) nel quale ci sembra vi sia un passaggio stonato.
In tale atto, dopo aver richiamato l’accordo citato, si afferma che “a far data dal 1 gennaio 2021” la quantità di rifiuti (di ogni genere) in ingresso all’inceneritore sarà di 195.000 t/a.
Tale previsione stupisce e preoccupa in quanto ci saremmo aspettati che alla data di scadenza del 31.12.2020 la quantità autorizzata rimanesse vincolata alla (nuova) pianificazione regionale e che comunque, fino alla definizione della stessa, rimanesse la quota di 130.000 t/a.
Invece, da quanto indicato nella nuova autorizzazione, l’incremento a 195.000 t/a appare “automatico”, svincolato da qualunque atto programmatorio, come se la limitazione attuale fosse solo un preludio al via libera totale del gennaio 2021.
Non siamo affatto convinti, dalla lettura del provvedimento di VIA e di AIA del 2016, che vi sia un obbligo “automatico” di incremento nella quantità dei rifiuti e quindi qualunque modifica all’autorizzazione crediamo debba essere discussa tra gli enti (in questo caso in prosecuzione della conferenza dei servizi del 29.06.2018, come pure delle note inviate dal Comune, come ricordato in premessa nella nuova autorizzazione).
Ci chiediamo allora se l’accordo del 30 luglio scorso avesse come obiettivo semplicemente una dilazione temporale dell’incremento della quantità di rifiuti autorizzata all’inceneritore di Parma piuttosto che un serio ripensamento da parte di Iren sulla richiesta di aumentare i rifiuti inceneriti, una decisione questa che aveva visto l’opposizione di molti soggetti, anche di importanti realtà economiche locali, tutti compatti a dire no ad ogni possibile incremento.
Un netto no che non prevedeva un termine temporale o una momentanea e breve sospensione dell’incremento ma definiva una visione strategica del territorio per andare verso l’economia circolare, concetto che oggi l’Unione Europea spende come percorso ineluttabile.
Un percorso dove l’incenerimento deve diventare un fatto residuale in attesa di uno stop definitivo, come già deciso dalla regione Marche.
Ora le domande.
Il contenuto della nuova autorizzazione è stato approvato dall’amministrazione comunale di Parma? Oppure Arpae è andata oltre alla trasposizione dell’accordo nell’atto?
Se così fosse l’amministrazione intende intervenire e chiedere una modifica dell’atto del 2.08.2018 per la parte qui messa in evidenza?

Rete Ambiente Parma
Farmacia Annunziata Parma

Giuliano Serioli

Rete Ambiente Parma
salvaguardia e sostenibilità del territorio

lunedì 27 agosto 2018

Prato di Monchio, è allarme acquedotto

La rete idrica "fa acqua" e provoca smottamenti

Un appello alla Regione contro Iren e le stesse autorità comunali da parte di residenti e proprietari di seconde case.
La frazione di Prato di Monchio è sul piede di guerra per un movimento franoso che provoca colamenti di terra, fessurazioni nelle abitazioni e avvallamenti nella strada.
La frana sembra essere causata delle abbondanti perdite dell’acquedotto locale.



Il sindaco, interpellato più volte, addossa le responsabilità a Iren, che lo ha in gestione.
Me nessuno si fa carico delle proprie resposabilità, nessuno si occupa del problema.
E i cittadini si sentono abbandonati.
L'acqua sversata dall'acquedotto, che risulta essere ormai un colabrodo, le piogge frequenti dell’ultimo periodo, una miscela micidiale che sta facendo smottare il terreno verso valle, spingendolo contro le case e i muretti a secco, provocando perfino la deformazione dello stesso tracciato stradale.
A favorire il processo la roccia sottostante l’area, che fa da piano di scorrimento.
Si tratta di argilliti rosse della formazione argilloso-calcarea, dominante in zona.
L'argilla, impermeabile, impedisce all'acqua di penetrare in profondità e il suo dilavamento crea smottamenti quando non addirittura veri e propri colamenti di terra, che diventata fradicia assume un peso sproporzionato, una massa enorme che scivola a valle.
Quest'anno il movimento è più consistente e le fessuarzioni nei muri delle case più marcati.
Due case sono già state "legate" con moduli di ferro: senza interventi si sarebbero aperte e i muri sarebbero crollati.
A questo punto è urgente intervenire. Riparare l'acquedotto e riattivare ii canali di scolo, per favorire il drenaggio dei suoli.
Tutto l'assetto dei terreni a valle del passo del Ticchiano dovrebbe essere monitorato, come le frane di Ceda e di La Valle suggeriscono.
Tutta la conca che scende dal Passo è costituita da tale formazione argillitica ed evidentemente la direzione degli strati coincide col verso delle pendenze sul terreno.
La dismissione di ogni forma di agricoltura in zona ha significato l'abbandono di ogni opera di scolo delle acque, che in passato limitava il fenomeno e che ora sta letteralmente innescando un enorme movimento franoso verso valle.
Con la complicità del silenzio delle autorità locali.

Giuliano Serioli

Rete Ambiente Parma
salvaguardia e sostenibilità del territorio

martedì 7 agosto 2018

No al decreto brucia foreste

Un danno enorme e forse irreversibile per le nostre montagne

Pensate ad un albero, inserito in una entità unica, quale può essere un bosco, o una foresta.
Non è semplicemente un pezzo di legno che, se tagliato, produce energia e può essere sostituito (dopo almeno trent'anni) da un altro “pezzo di legno", un'altra pianta.
Non è così.
Un albero è soprattutto un essere complesso, necessario alla nostra respirazione, al nostro esistere.
Pensate ad un bosco, esso agisce come un pompa naturale, alimentata dall'energia del sole, che permette la circolazione dell'acqua sulla Terra.


Il bosco è un polmone, aiuta a filtrare e rinnovare l'aria fissando il carbonio contenuto nell'anidride carbonica e liberando ossigeno durante il giorno.
Vi siete mai chiesti perchè d'estate in città non piove mai ed invece in montagna agiscono frequenti temporali locali?
Proprio ci sono i boschi. Che determinano microclimi che ci permettono di respirare meglio e di vivere al fresco.
Attraverso microscopiche aperture presenti sulle foglie, le piante respirano e traspirano, cioè rilasciano vapore acqueo che va a formare nubi, da cui l'acqua tornerà al bosco coi temporali.
Medicina Democratica ha inviato un appello, sotto forma di lettera aperta, al Presidente della Repubblica, per la difesa delle foreste dalla loro “valorizzazione energetica" che costituisce in realtà un loro impoverimento, in nome della produzione di energia attraverso combustione.
Sono le cosidette biomasse, già sottoposte a critiche scientifiche da associazioni ambientaliste e da numerosi scienziati.
La lettera aperta si oppone al decreto riguardante “Disposizioni concernenti la revisione e l’armonizzazione della normativa nazionale in materia di foreste e filiere forestali” che viola la Costituzione Italiana e rappresenta un danno all’ambiente, alla salute e all’economia del paese.
È nostra convinzione, supportata da dati scientifici, che tale provvedimento contrasti con alcuni punti fondanti della Costituzione, in particolare con l’articolo 9 dove la carta recita “La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
E poi all’artcolo 32 dove si legge “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.
Ed anche all’articolo 41. L’iniziativa economica…“non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Il nuovo dispositivo porterebbe danni enormi all’ambiente, all’economia e alla salute dei cittadini. Promuovendo la “valorizzazione energetica” del bosco, verrebbe in realtà promossa una fonte energetica inefficiente, favorendo il taglio del bosco in modo incondizionato e massiccio.
Ciò si tradurrebbe in danni al patrimonio ambientale, come consumo e degradazione del territorio, offesa al patrimonio boschivo e ambientale italiano, già incentivato dallo smantellamento del Corpo Forestale, degrado di fondamentali servizi ambientali quali la depurazione dell’aria, la regolazione del regime idrico, la conservazione del suolo e della biodiversità, l’aumento delle emissioni nette di gas a effetto serra, aumento dell’inquinamento atmosferico anche per il venir meno dell’azione depurativa dell’aria operata dalle piante, oltre che per l'aumento di combustione di biomassa.
Il nostro Paese è sotto procedura di infrazione da parte dell’UE per la cattiva qualità dell’aria.
Il rischio è che il proliferare incontrollato di impianti a biomassa porti alla combustione di materiale pericoloso per la salute pubblica.
Le centrali a biomassa portano con sé uno spreco di prezioso denaro pubblico. Quasi sempre sono in parte finanziate dalle Regioni, le stesse che finanziano la produzione di cippato perchè il mercato della legna da ardere, stante i suoi prezzi, non accetta di rifornire le centrali.
Le centrali a cippato di legna nel Parmense sono già cinque: ospedale di Borgotaro, Monchio delle Corti, Neviano Arduini, Calestano, Varano Melegari. Un totale di circa 3,5 megawatt di potenza termica e di circa 5.000 tonnellate di consumo annuo di cippato, corrispondenti a circa 50 ettari di bosco annui.
In sostanza il “Testo Unico sulle foreste e sulle filiere forestali” considera i boschi principalmente come fonte di energia rinnovabile, cioè legna da ardere e cippato per le centrali a biomassa.
Tale interpretazione del Testo Unico è avvalorata ancor più dal fatto che per conseguire gli obiettivi 2020 in materia di fonti rinnovabili, la legge finanziaria 2018 ha prorogato gli incentivi pubblici a favore degli esercenti di impianti per la produzione di energia elettrica alimentati da biomasse.
Risulta evidente che, a causa del combinato disposto di Testo Unico e Legge Finanziaria 2018, le nostre foreste subiranno una pressione molto forte da parte dei gruppi industriali che vogliono lucrare sugli incentivi.
Un danno enorme e forse irreversibile per le nostro montagne.

Giuliano Serioli

Rete Ambiente Parma
salvaguardia e sostenibilità del territorio

martedì 17 luglio 2018

Tagli veri, risposte apparenti

Alla nostra lettera denuncia, inerente i tagli boschivi di questi ultimi due anni sui monti del parco del monte Fuso ( M.ti Fuso, Lavacchio, Faino), è stato risposto. Lo ha fatto la Comunità Montana Parma Est, a firma del suo presidente, nonché sindaco di Langhirano, Giordano Bricoli.



La risposta è in burocratese. Per capirci che roba sia ve ne diamo esemplificazione: "...dalle foto prodotte si ritiene che i tagli indicati - -ultimo taglio Lavacchio ovest - possano riguardare a) domanda prot 1253 del 24/02/2016 oggetto di sopraluogo in data 15/3/2016 autorizzata in data 22/3/2016 prot 1843 in cui è stato ammesso il taglio per i mappali 115 109 foglio 116 Neviano con rilascio di matricine con diametro minimo pari a 20 cm. ad 1,30 metri di altezza ad una distanza di 8 metri l'una dall'altra...".
La lettera di risposta è tutta così per ben 4 pagine. In astratto, con una precisione burocratica proterva, scavalcando la realtà distruttiva del taglio.
Saranno reali i 20 cm delle matricine e gli 8 metri di distanza dichiarati?
Ci crediamo poco.
In ogni caso matricine isolate sono sottoposte alla sferza delle intemperie.
Il fatto è che non si prende nemmeno in considerazione la sostanza del nostro esposto, non si risponde nel merito.
Parlavamo di forte pendenza dei versanti, con un'acclivita sempre intorno al 100%, se non maggiore in alcuni punti.
Dicevamo che un taglio raso matricinato in simili versanti di monti, costituiti da sedimenti tipo flysc, cioè alternanze di arenarie basali, marne ed argilliti, alla prima forte pioggia rischia di produrre l'asportazione del soprasuolo, del suolo e degli apparati radicali dei polloni così indeboliti.
Si noti che il suolo, in montagne a struttura geologica tipo flysc ed in versanti ripidi, tende ad essere molto sottile e asportabile facilmente dando luogo a colamenti e frane.
Dicevamo nella lettera che l'aver trasformato sentieri in carraie per il passaggio di mezzi pesanti avrebbe degradato ulteriormente tali versanti.
La normativa Regionale, infatti, prevede il ripristino da carraie a sentieri una volta concluso il taglio. Cosa che nessuno si preoccupa di fare.
Nel 2016 un imprenditore era stato multato dalla forestale proprio per tale motivo in seguito a tagli sul monte Fageto.
Ribadivamo che ci sono versanti sul monte Faino neanche attraversati da sentieri su cui chi ha tagliato ha letteralmente impostato nuove carraie con grave degrado e pericolo di frane.
Nei borghi la gente è a conoscenza del fatto che alcuni imprenditori danno da tagliare con mezzi meccanici pesanti a gente dell'est pagati in chissà qual modo.
Tutti quei tagli non portano ricchezza alla montagna, i soldi se ne vanno altrove assieme alla legna.
Quello che resta dopo un taglio raso lo si vede dopo un paio d'anni.
Matricine stente, apatto che si siano salvate dalle intemperie, e cespuglieti.
Questi, da lontano, colorano di verde i versanti come niente fosse successo, mentre in realtà le loro radici non danno alcun sostegno alla montagna, non tratterranno il soprasuolo.
Con piogge torrenziali verrà giù tutto.
E intanto il manto boschivo di prima non c'è più. Non se avvantaggia di certo il paesaggio, ma neanche la cattura di CO2 da parte del verde.
Che se qualcuno pensa che i cespuglieti, cresciuti dopo un paio d'anni, catturino la stessa quantità, sbaglia. E' il manto boschivio integro a farlo.
Diversi tecnici forestali ormai affermano che il taglio raso di un ceduo invecchiato 40 o 50 anni è sbagliato, che sarebbe molto meglio per la struttura geologica della nostra montagna avviare un diradamento selezionato.
In tal modo la copertura boschiva rimarrebbe integra dal punto di vista sia paesaggistico che di cattura della CO2.
I versanti non subirebbero il degrado cui sono sottoposti ora, con grave pericolo per le valli in caso di piogge distruttive.
Il taglio a diradamento selezionato sarebbe più controllato dalle autorità preposte, schivato dagli imprenditori del taglio raso speculativo e favorirebbe la crescita di cooperative locali di taglio, garantendo un'attività economica congra e stabile per gli abitanti della montagna.

Giuliano Serioli
Dimitri Bonani
Raffaella Sassi (Neviano Arduini)

Rete Ambiente Parma
salvaguardia e sostenibilità del territorio

venerdì 18 maggio 2018

Dopo il Fuso il Faino, E' distruzione scellerata del bosco.

Constatiamo che la Comunità Montana invece di mettere un freno ai tagli, continua ad autorizzarne su forti pendenze, addirittura su torrenti.
Come si può vedere dalla cartina, sono stati fatti altri nuovi tagli nella valle del "Rio del Faino" a circa quota 820 metri, come dalle foto stesse.
Hanno tagliato proprio il giorno martedì 8 maggio (il verde delle piante tagliate ne è testimonianza) che è ben oltre il limite massimo, il 15 Aprile.
Inoltre hanno tagliato, come dalle foto, su forte pendenza, ostruendo addirittura il torrente con il legname tagliato, oltre ad aver creato una strada con la ruspa proprio sul torrente del Faino per passare con mezzi pesanti (zona 1 della mappa).
Oltre a questo, hanno fatto un nuovo taglio sul sentiero Cai 761A sempre sul Faino, in quello che fino all'anno scorso era un bellissimo sentiero immerso nei boschi in cui insiste una carraia segnalata per il trekking a cavallo, proprio per la bellezza di transitare per quel (ex) verde bosco (zona 2 della mappa).
Infine, hanno fatto un altro taglio proprio a pochi metri a nord della cima del Monte Faino scendendo poi nel versante ovest non molto sopra al taglio precedente (zona 3 della mappa).
Di seguito le foto.
Rete Ambiente Parma

La carraia costruita addirittura sul torrente del Faino per poter accedere coi mezzi pesanti sull'altro versante appena disboscato
Ben visibile è il torrente completamente ostruito sia destra che a sinistra
Il disboscamento sopra alla suddetta carraia
La pendenza su cui è stato fatto l'esbosco è notevole, anche se la foto non rende molto
Evviva i tagli meccanizzati industriali...
Da come si evince dal verde delle piante tagliate in foto, i tagli sono stati appena fatti e si è andati ben oltre al limite di data consentito dalla legge
Le piante verdissime appena tagliate e quelle tagliate tempo addietro, hanno completamente ricoperto il torrente del Faino


Guardando a valle rispetto alle foto precedenti, si vede che a destra (lato ovest) sono andati a tagliare le piante fino al limite massimo, in terreno estremamente delicato a ridosso del torrente.
Il taglio prosegue poi in maniera molto più ampia verso ovest, dove nella foto non è visibile la carraia da cui sono scesi nella valle e che hanno aperto.
Qui siamo nella zona 2 della mappa, dove il sentiero Cai in oggetto era immerso in un bellissimo bosco lussureggiante...




Qui invece siamo nella zona 3 della mappa, appena sotto alla cima del monte Faino.
Il taglio prosegue poi in modo molto ampio scendendo a destra nel versante ovest (verso il Rio del Faino).