"Non ho paura della cattiveria dei malvagi, ma del silenzio degli onesti". (Martin Luther King JR)

sabato 7 dicembre 2019

Dissesto idrogeologico : la montagna ha bisogno di prevenzione

Clima impazzito o stoltezza dell'uomo?

L'immagine riporta un tipico taglio raso effettuato nel nostro Appennino.
Come si può facilmente notare, è stato fatto su un versante che supera il 100% di acclività, o ci è molto vicino.

Un taglio sconsigliato perché denuda un versante ripido, soggetto a forte corrivazione in caso di piogge intense e quindi soggetto ad asportazione del suolo e denudamento del substrato roccioso. Lì il bosco ha smesso la sua funzione di spugna rispetto all'acqua piovana che scorrerà ancora più velocemente a valle. Se il suolo viene in gran parte asportato dalle piogge è impossibile che il bosco ricresca come prima. Sarà più rado e stentato.
La realtà dei tagli dissennati e dell'asportazione di soprasuolo boschivo è una amara realtà di tutti i bacini imbriferi della nostra provincia. La Regione nega che, dal punto di vista quantitativo, questo sia un problema, affermando che rispetto ai due milioni di metri cubi di accrescimento annuo dei boschi il mezzo milione di metri cubi prelevato coi tagli sia poca cosa.
Anzi, si deve prelevare di più. Ma considera che non tutto è ceduo? Che l'acclività e la difficoltà di arrivare a strade in molte zone rende impossibili i tagli? Che quindi questi avvengono quasi sempre nelle zone boschive più accessibili e più vicine alle strade rotabili?
Che quindi si corre il rischio di denudare in modo massiccio una fascia boschiva ristretta?
La Regione dice che è “necessario attribuire un valore economico ai servizi eco-sistemici prodotti dal patrimonio forestale a favore della intera società, a cominciare dalla sua capacità di regolazione del deflusso idrico in funzione dell’immagazzinamento della risorsa per scopi idro-potabili, della tenuta dei versanti, ma soprattutto dalla sua funzione di assorbimento della CO2”.
Quello cui assistiamo, invece, è la sempre maggior monetizzazione della legna da ardere e dei suoi derivati, pellet e cippato. Il bosco vede una sola valorizzazione, quella del mercato della legna da ardere. Con tutte le conseguenze che la combustione della biomassa comporta, non solo per l'incremento della CO2 in atmosfera, ma soprattutto per l'inquinamento da polveri altamente tossiche e cancerogene.
La recente iniziativa della Regione di concedere 420 mila euro a fondo perduto per diradare le pinete della nostra Provincia serve solo ad approvvigionare di cippato le centrali a legna di montagna, che visto che il prezzo della legna da ardere è più del doppio di quello del cippato, sono in seria difficoltà.
Altra spugna che se ne va per esigenze di bottega.
Il problema, col cambiamento climatico in atto e coi 200 mm di pioggia in poche ore dell'ultima alluvione del Baganza, è proprio la montagna che con i suoi boschi smette di trattenere l'acqua.
La cassa di espansione potrebbe servire a contenere gli effetti ma non sana le cause, che sono appunto il calo della capacità di assorbimento dei nostri boschi.
Regione, AIPO ed altre istituzioni pensano che per mettere in sicurezza il territorio la soluzione sia ingegneristica, appunto costruire una cassa d'espansione.


Un buco di 600 metri x 1000 e profondo 15 che trattenga la piena quando arriverà.
Ammesso che sia la soluzione e non lo crediamo, il problema è a monte, lungo l'alveo del torrente, nella cementificazione, nei boschi tagliati, nei versanti denudati.
Il problema è che senza una difesa attiva del territorio la cassa da sola non sarà sufficiente.
E veniamo al dunque della cassa d'espansione.
Basterebbe un progetto di difesa attiva per preservare dalle piene il territorio.
Ad esempio rialzare gli argini a valle di Sala Baganza con sfioratoi in grado di riversare l'acqua in eccesso nella campagna attorno.
Questo previo accordo coi contadini della zona, remunerandoli dei danni alle colture.
Niente scavo e cemento, che abbasserebbe ulteriormente la falda acquifera che provoca mancanza
d'acqua nell'alta pianura.
Ma coinvolgimento dei contadini e delle piccole aziende edili della zona agli argini e ad eventuali laghetti in cui contenere l'acqua in eccesso delle piene primaverili.


Giuliano Serioli

Rete Ambiente Parma
Salvaguardia e sostenibilità del territorio locale

martedì 22 ottobre 2019

PROBLEMI IDRICI NEL NOSTRO TERRITORIO

Le prove in vasca della cassa d'espansione sul Baganza sono state effettuate. Il progetto esecutivo sta per essere ultimato.
A Gennaio partiranno i lavori per la cassa sul Baganza al Casale di Felino, che dureranno 5 anni.
La soluzione decisa dalle autorità dopo l'alluvione del 2014 è questa.
La pioggia battente per diverse ore di quell'autunno aveva convogliato verso la pianura una quantità d'acqua mai vista prima in così poco tempo, tracimata al ponte dei Carrettieri, allagando quella parte di città.
Parma ha scoperto in modo diretto il cambiamento climatico nelle nostre terre : il maggior calore accumulato dalla primavera si scontra in autunno con improvvise perturbazioni di origine artica, sprigionando acquazzoni molto più intensi di prima.
L'aumento del gradiente termico crea le bombe d'acqua.
Ma la cassa d'espansione è la soluzione giusta al problema?
Il manufatto implica la cementificazione di 8 ettari di suolo.
Non certo una cosa positiva in una pedemontana già ultra cementificata.
Inoltre, quella massa d'acqua trattenuta verrà scolmata in poco tempo e non finirà nel sottosuolo ,come è necessario, ma direttamente in mare.
L'acqua, inoltre, non è un problema solo per la città, lo è anche per il territorio. Non è necessaria solo per le persone, ma per i campi, per gli allevamenti, per la crescita e lo sviluppo delle piante.
Cambiamento climatico non vuol dire solo diluvio, acqua da trattenere in qualche modo.
Significa anche che piove in maggior quantità e più di rado.
Acquazzoni turbolenti e fiumi in piena che scorrono rapidi verso il mare.
Vuol dire minor ricarica degli acquiferi, i bacini d'acqua del sottosuolo da cui ricavare acqua per persone, coltivi e piante.
La cassa d'espansione, invece, deve rimanere sempre vuota per svolgere il suo compito, quindi deve rilasciare l'acqua in poco tempo.
Il suolo, al contrario, deve trattenere l'acqua per più tempo perché questa si infiltri in profondità, perché raggiunga gli acquiferi, li rimpingui.
Quindi LA CASSA E' LA SOLUZIONE SBAGLIATA contro l'inaridimento del suolo che il cambiamento climatico sta provocando.
Se piove di rado e quelle volte ne viene una quantità spropositata, non deve incontrare manufatti che la convoglino al mare più velocemente, deve essere trattenuta sul suolo per il tempo necessario ad andare in profondità per esservi lì trattenuta.

Che fare,allora, per impedire che la città venga alluvionata di nuovo?
E che fare perché l'acqua di piogge intense riesca ugualmente a rimpinguare gli acquiferi e non scorra via attraverso i torrenti?

La soluzione c'è : TRACIMAZIONI CONTROLLATE.

Attraverso paratie mobili lungo gli argini del Baganza, convogliare l'acqua di piena in zone determinate della campagna circostante, che in autunno l'aratura segnala che i coltivi sono già
stati raccolti e smerciati.
L'acqua ha il tempo di andare in falda e i danni eventuali alle fattorie, da rifondere subito, sicuramente non sono paragonabili al
costo in denaro ed in perdita di suolo dell'annosa cassa.
Ovviamente, tali paratie devono essere collegate ad una centrale di monitoraggio dei livelli di pioggia e dei tempi di corrivazione dell'acqua piovana, nonché ai livelli di piena già registrati lungo l'asta del torrente in località a monte.
Parimenti, anche i boschi della nostra montagna svolgono una notevole funzione di mitigazione delle quantità d'acqua e dei tempi di corrivazione della stessa. Per questo deve essere abbandonato il taglio raso matricinato e intensificato quello per l'avviamento all'alto fusto.
Si stima che il taglio raso matricinato, dal 2009 ad oggi, abbia trasformato il 20% dei nostri boschi in cespuglieti o poco più, con grave danno anche per l'assetto del suolo non più trattenuto dall'apparato radicale.


Serioli Giuliano
ReteambienteParma
Parma 14-10-2019

sabato 3 agosto 2019

LO STATO EFFETTIVO DEI NOSTRI BOSCHI

Girando in auto per la montagna tutto appare verde. Dove l'anno precedente sono stati effettuati tagli, cespuglieti sono cresciuti di gran carriera, soffocando le poche matricine lasciate. Dal basso sembra che il verde domini una montagna incontaminata in cui i boschi avanzano.
La realtà non è così.

Pare che l'Istat non raccolga più dati sui tagli di legname nel nostro paese dal 2017.

Fino al 2016 però sono disponibili tutti i dati relativi.
Il Bilancio Energetico Nazionale riporta che nel 2016 il consumo di legna da ardere in Italia si è assestato su 25 milioni di tonnellate.
Circa il 20% di famiglie italiane si serve di legna da ardere per il riscaldamento.


Infatti negli ultimi anni sono state vendute 2 milioni di stufe a pellet e circa 300 Mega Watt termici ed elettrici sono stati prodotti dalle centrali a biomassa, frutto della speculazione che la cosiddetta green economy perpetua sulle nostre bollette, incamerando gli incentivi per la produzione di energia
"verde" e rilasciando in cambio polveri sottili e veleni per tutta la penisola.
Le centrali a biomassa, dall'Alto Adige alla Calabria, passando per Russi in Emilia, producono energia elettrica, disperdendo la gran parte di quella termica, e vengono alimentate quasi del tutto da legna importata dall'estero via nave, catalogata come scarto di deforestazione.
Sono esattamente i 3,3 milioni di tonnellate che troviamo nella relazione del Bilancio Energetico Nazionale quale legna importata.
A bilancio figurano quindi non più di 2 milioni di tonnellate di legna di produzione nazionale. Sembrerebbe che il prelievo di legna dai nostri boschi sia di conseguenza quasi nullo.
La superficie forestale del nostro paese, infatti, è di 10 milioni di ettari, cioè 100.000 km quadrati, un terzo della superficie del Paese.
A causa dell'abbandono della fascia montana dell'Appennino, tale superficie boscata ha un ritmo di crescita eccezionale, 1.000 metri quadrati al minuto, cioè circa 500 km quadrati all'anno.
Vuol dire che la superficie boscata immette ogni anno 5,45 milioni di tonnellate di legna prelevabile in più. Proprio uguale a quei 5,3 milioni di tonnellate di legna registrati a bilancio tra quella prodotta in chiaro e quella importata.
Occorre considerare però che l’accrescimento naturale non corrisponde ad alberi in più ma ad apparato fogliare accresciuto e cimali soltanto.
Ma allora tutti gli articoli di giornale sui tagli dissennati dei boschi, sui prelievi eccessivi che mettono a rischio frane il nostro paese sono una bufala?
Ovviamente no.
Se al consumo di legna da ardere (25 milioni di tonnellate) togliamo l'accrescimento naturale dei boschi, le importazioni e il taglio dichiarato in chiaro (in totale 10,3 milioni di tonnellate) restano ben 15 milioni di tonnellate di legna tagliata “in nero” sui monti del nostro paese.
Le autorità nazionali e locali che si vantano della crescita costante dei boschi, che è solo apparato fogliare in più, fanno finta di niente sui tagli nascosti.
Se la legna prelevabile cresce naturalmente ogni anno di 5 milioni di tonnellate, nello stesso tempo cala di 20 milioni di tonnellate per i tagli nascosti.
Il saldo negativo è evidente: ogni anno perdiamo 1.500 km quadrati di boschi, cioè 150.000 ettari (-1,5% ogni anno).
Lo mettiamo in rilievo, parliamo di boschi e non di superficie boschiva.
I nostri burocrati locali faranno a gara per rispondere a gran voce che non si perde niente, che non si tratta di superficie boschiva, che i boschi ricrescono.
A loro rispondiamo in anticipo che quelle superfici metteranno trent'anni a tornare come prima.
Ogni anno perdiamo una quota di bosco.
I tagli avvengono soprattutto sull’appennino tosco emiliano e su quello ligure, le zone più vicine alla grande diffusione di stufe a pellet, che quindi in questi ultimi 10 anni piccole matricine o piante di pochi anni hanno preso il posto di boschi invecchiati su circa il 25% della superficie boschiva di queste aree.
I tagli rasi sono quasi la totalità, lasciando solo cespuglieti.
Il danno idrogeologico è immane a fronte del cambiamento climatico.
Ci saranno sempre meno radici di piante adulte a trattenere i pendii del nostro Appennino, strutturalmente franoso di suo.
La superficie foliare, capace di contrastare le bombe d'acqua, sarà sempre minore.
Ne risentirà il paesaggio e il turismo, fonte principale di introiti economici per la nostra montagna.
Gli introiti della gran parte dei tagli vanno ad aziende che pagano in nero gente dell'Est Europa, esentasse.
Di questi soldi niente o poco rimane ad alimentare le economie dei borghi sempre più abbandonati, che devono ricorrere all'unità con comuni limitrofi per poter garantire i servizi minimi con economie di scala.
I dati sono tratti dal convegno promosso da AIEL del 23 febbrario 2018.


Giuliano Serioli


Rete Ambiente Parma
Salvaguardia e sostenibilità del territorio

giovedì 18 luglio 2019

La strana storia della diga di Armorano

Da alcuni mesi sulla Gazzetta di Parma compaiono periodicamente numerosi articoli che propongono con grande entusiasmo la costruzione di una diga ad Armorano in Val Baganza. Ma perché tanta intraprendenza? E’ bene fare chiarezza.
Tutto è cominciato con il progetto della cassa di espansione a Sala Baganza che ha trovato la contrarietà di molti cittadini del luogo. Anch’io sono contrario alla costruzione di quell’opera perché ritengo che il modo migliore di prevenire le alluvioni sia quello di naturalizzare i fiumi restituendo loro lo spazio che gli è stato tolto. L’alluvione di Parma del 2014 non fu causata da un Baganza cattivo e crudele ma da un innaturale restringimento alle porte della città dovuto a innumerevoli attività umane. Ora il letto del fiume in quel tratto è stato allargato e il rischio è notevolmente diminuito ma rimane ancora molto da fare per renderlo ancora più sicuro come, ad esempio, incentivare la delocalizzazione di alcuni siti industriali che ancora operano nel greto.

A Sala Baganza invece alcuni personaggi molto influenti che comprensibilmente non vogliono la cassa di espansione sotto casa loro hanno pensato di risolvere il problema proponendo la costruzione di un’opera ancora più devastante in casa altrui in base al noto principio “not in my garden” (non nel mio giardino).

L’Unione Industriale ha preso la palla al balzo considerando la possibilità di lauti profitti nella realizzazione di un’opera così faraonica mettendo subito al lavoro la Gazzetta di Parma che, con la solerzia e la tenacia di un imbonitore, stampa periodicamente edulcorati articoli che vantano i miracolosi vantaggi che la diga porterebbe (ricchezza, turismo, ecc.) senza fare il minimo cenno alle numerose controindicazioni che un’opera così invasiva comunque avrebbe sull’intera vallata. E’ noto a tutti che l’Unione Industriali non è deputata alla cura e alla tutela del territorio ma bensì, legittimamente, a garantire gli interessi dei propri associati promuovendo occasioni di business.
Insomma l’idea della diga non è una proposta degli organismi tecnici competenti preposti alla tutela del territorio ma un’iniziativa di privati cittadini che attraverso l’UPI hanno promosso la campagna di stampa sulla Gazzetta.

Ora cerchiamo di mettere i piedi per terra. La val Baganza è una delle valli più fragili e franose d’Italia. Dalla pianura fino alle sorgenti è costellata da innumerevoli frane attive (Ronzano, Armorano, Chiastre, Casasevatica, Cervellino, solo per citarne alcune) e chi transita regolarmente lungo la stretta di Armorano trova continuamente sassi, massi e detriti che cadono dalla montagna e ostruiscono la strada tanto da rendere quel tratto pericoloso nei giorni di forti piogge. In questo punto la strada viene periodicamente chiusa anche per lunghi periodi per consentire i lavori di messa in sicurezza delle frane della Riva dei Preti e di Armorano che finora nessuno è riuscito a domare e che anno dopo anno sgretolano la montagna.

E’ in questo luogo così instabile e precario che si vuole costruire la diga!

Non bisogna poi dimenticare le numerose frane quiescenti che si riattiverebbero se venissero anche solo parzialmente ricoperte dall’acqua. La tragedia de Vajont fu provocata da una frana di questo tipo e, forse non a caso, l’originario progetto della diga di Armorano degli anno ’50 venne definitivamente abbandonato nei primi anni ’60 dopo questi tragici avvenimenti.

C’è poi un altro problema: a causa della fragilità della vallata ad ogni piena enormi quantità di fango e detriti vengono trasportati a valle; lo sbarramento non farebbe altro che trattenerli riempiendo l’intero bacino in poco tempo: è quello che è successo in val d’Aveto (a 50 km di distanza) e che sta succedendo in Val d’Arda nella diga di Mignano. Tutti gli abitanti della Val Baganza hanno visto con i loro occhi le enormi quantità di fango e detriti che l’alluvione del 2014 trascinò a valle e che, in presenza dello sbarramento, ne avrebbe gravemente compromesso l’efficienza: un bacino in una valle fatta di fragili montagne che si sgretolano in continuazione richiederebbe quindi enormi costi di manutenzione.
E’ bene ricordare, inoltre, che gli invasi appenninici sono ben diversi da quelli alpini alimentati da ghiacciai e piogge molto più copiose. Gli invasi del nostro territorio sono quasi sempre semivuoti e si presentano normalmente come un acquitrino circondato da una vasta e desolante aureola di fanghiglia ed è difficile credere che possano attirare flotte di turisti come sostiene la Gazzetta.

Insomma se la diga venisse costruita la stabilità e la sicurezza del nostro territorio verrebbe gravemente compromessa, l’intero borgo di Tavolana sparirebbe sotto una coltre di melma mentre il tratto più bello e suggestivo della nostra valle apparirebbe come un acquitrino fangoso a ridosso di una orrenda muraglia di cemento. La bellezza della val Baganza (la sua vera ricchezza) verrebbe sacrificata in nome dell'interesse di pochi.
La costruzione della diga porterebbe lauti guadagni alle imprese coinvolte e se poi le cose andassero diversamente da come previsto non è più un loro problema. Il problema resterà sulle spalle dei cittadini e della comunità che ne ha sostenuto il costo come troppo spesso succede nel nostro paese.

Mi auguro che il buon senso ritorni presto sovrano.

domenica 14 luglio 2019

QUANDO NON SI VOGLIONO IMPARARE LE LEZIONI DELLA STORIA.


Esiste un filo conduttore che unisce la diga del Vajont con quella di Armorano. Non voglio fare terrorismo e non mi riferisco al rischio che l’invaso di Armorano, una volta realizzato, possa provocare immani tragedie: non ho alcuna competenza per fare valutazioni del genere e le due realtà sono molto diverse e probabilmente incomparabili. Mi riferisco invece allo STESSO IDENTICO METODO con cui sono stati realizzati i due progetti.
Alla fine degli anni ’50 un abile ingegnere, osservando la gola del Vajont, pensò che costruendo una diga alta quasi 300 metri si potesse produrre tantissima energia elettrica; aveva ragione ma si dimenticò di prendere in considerazione la geologia della valle; la natura fece il suo corso e tutti noi sappiamo come andò a finire. La diga, una straordinaria opera ingegneristica, è ancora là in tutta la sua imponenza a ricordarci e a insegnarci che non basta l’ingegneria per realizzare opere del genere mentre sono molteplici i fattori che devono esser presi in considerazione primo fra tutti una valutazione seria, rigorosa e inconfutabile del rischio idrogeologico che deve garantire l’assoluta sicurezza dell’opera.
Ad Armorano sta succedendo la stessa identica cosa: a qualcuno viene in mente di costruire un invaso ed ingaggia un abile ingegnere per realizzare il progetto di una diga alta 100 metri senza che si faccia la ben che minima considerazione del rischio idrogeologico ne alcuna valutazione dell’impatto ambientale. I numerosi articoli della Gazzetta e le slide mostrate alla presentazione del progetto non dicono nulla al riguardo e si limitano a decantarne le straordinarie qualità.
C’è però una differenza che rende grottesca la vicenda di Armorano: i progettisti idearono la diga del Vajont per fornire energia elettrica all’Italia animati dal desiderio (pur sbagliando) di contribuire allo sviluppo economico del paese mentre la diga di Armorano è stata pensata nel chiuso delle mura domestiche di qualche ricca e potente famiglia parmigiana semplicemente per evitare la cassa di espansione nei pressi della propria abitazione e dei propri capannoni riesumando un vecchio progetto che, guarda caso, venne definitivamente abbandonato proprio dopo la tragedia del Vajont.
Anche la politica ha preso posizione rispetto a questa vicenda e dal grottesco si passa al paradosso. Sulla Gazzetta sono comparsi diversi articoli a sostegno dell’opera a firma della Lega e di Fratelli d’Italia. Tuonano i politici: “non bisogna dar retta ai fanatici ambientalisti che non sanno cogliere le occasioni!!! Bisogna costruire la diga di Armorano per dare acqua alla popolazione!!!”. Ma che ne sa un politico di dove debba essere costruita una diga??? Un politico serio che legittimamente ritiene, in base alla sua visione del mondo, si debbano costruire le dighe dirà semplicemente “Bisogna costruire le dighe!” dopo di che recluterà un team di scienziati che a seguito di seri e approfonditi studi indicheranno il sito ideale dove costruirla garantendo l’assoluta sicurezza dell’opera e il minimo impatto ambientale. Perché la Lega vuole costruire la diga proprio ad Armorano e non a Berceto o a Marzolara? E perché proprio in Val Baganza (dove l’acqua non è tantissima) e non in Val Taro o in Val Ceno?
Lo sappiamo tutti che la diga costruita proprio ad Armorano renderebbe superflua la cassa d’espansione di Sala Baganza che infastidisce la vita di alcuni ricchi e potenti imprenditori.
Non sarà forse che la politica anziché essere al servizio dei propri elettori è in realtà al servizio dei potenti???
E’ importante trovare una risposta a questa domanda.


L’invaso del Vajont completamente riempito dai detriti e la diga intatta. Si osservi l’estrema franosità dell’area.



La diga della Val d’Aveto, distante in linea d’aria 50 km da Armorano. Anch’essa è stata riempita dai detriti ma in maniera molto meno violenta che nel Vajont e fortunatamente non causò vittime. Questo fatto tuttavia ci dimostra che il rischio di un disastro va sempre preso in seria considerazione e che è sempre necessario fare tutte le valutazioni del caso prima di proporre un’opera simile.


La mappa del dissesto idrogeologico del luogo in cui si vuole realizzare il bacino di Armorano. Le zone colorate indicano le aree a rischio idrogeologico e i colori i diversi livello di rischio. I progettisti non hanno fatto alcun riferimento a questa mappa disponibile sul sito della regione Emilia-Romagna.


mercoledì 10 luglio 2019

La diga di Ridracoli e quella di Armorano


La diga di Ridracoli e quella di Armorano: 
due realtà non confrontabili
La Gazzetta per pubblicizzare i mirabolanti benefici che la diga di Armorano porterebbe ha proposto come esempio virtuoso la diga di Ridracoli realizzata negli anni ’80 in Romagna. Tuttavia la Gazzetta dimentica e non a caso alcuni particolari che rendono il paragone alquanto improponibile. Cerchiamo dunque di comprenderne le ragioni.
La diga di Ridracoli si trova a ridosso del crinale appenninico (circa 4 km, nella testata del fiume Bidente) in un luogo completamente disabitato; in questo modo non disturba nessuno ma soprattutto viene alimentata da un breve tratto fluviale, con un minimo trasporto di detriti al bacino.
La diga di Armorano si troverebbe invece nel bel mezzo della val Baganza a più di 25 km dal crinale tra i centri abitati di Calestano e Ravarano e farebbe completamente sparire il borgo di Tavolana con le relative attività agricole. Ma c’è un’altra questione molto importante. Dal tratto di valle che alimenta il bacino scendono diversi rii in prevalenza dal crinale della sponda destra (Montagnana, Cavalcalupo, Cervellino, ecc.). “Bene!”, dirà qualcuno “così avremo più acqua”. Beh … non è proprio così. In realtà questi rii, molto ripidi, precipitano a valle in pochissimi chilometri da quote superiori ai 1.300 metri e hanno comportamenti piuttosto bizzarri: per gran parte dell’anno sono ridotti a miseri rigagnoli spesso completamente asciutti mentre nei periodi di forti piogge diventano molto violenti e trascinano a valle enormi quantità di detriti. Tanto per fare un esempio gli abitanti di Ravarano hanno visto con i loro occhi i disastri causati da rio D’Arso durante l’alluvione del 2014 che addirittura mise in pericolo le prime case del Borello e tutti gli abitanti della val Baganza hanno avuto modo di constatare l’enorme quantità di materiale che scese rovinosamente dalle nostre fragili montagne.
Ma non ci sono soltanto i rii; la fragilità delle nostre montagne causa moltissime frane e fra tutte queste ve ne sono tre particolarmente insidiose. Quelle di Chiastre, Casaselvatica e Cervellino sono delle enormi lingue di fango simili a colate laviche che scendono nel Baganza vomitando anch’esse enormi quantità di melma e detriti. Il torrente da innumerevoli millenni è abituato a portare a valle tutto questo materiale senza particolari problemi e chi frequenta il Baganza vede, dopo ogni piena, il letto completamente modificato con enormi spostamenti da un punto all’altro di grandi quantità di materiali. Se si costruisse uno sbarramento questo flusso si arresterebbe e in poco tempo riempirebbe il bacino.
Tralasciamo, per il momento, le questioni non secondarie della sicurezza idrogeologica e dei flussi idrometrici e cerchiamo di comprendere le conseguenze di questa situazione: la diga avrebbe dunque una vita operativa piuttosto breve (pochi decenni a fronte di investimenti faraonici) e per mantenerla efficiente occorrerebbe eseguire costantemente costosissimi e invasivi interventi di manutenzione che nel caso migliore, si trasformerebbero in un debito per le future generazioni ma che, più comunemente, nessuno realizza! Del resto, dove mai si potrebbero stoccare i milioni di mc di detrito intrappolati da un invaso realizzato nel bel mezzo della valle?
Ma perché in questi mesi è stato proposto un progetto così folle???
Le vere ragioni sono piuttosto subdole: se alcuni influenti personaggi non avessero la casa e i capannoni nei pressi dell’area destinata alla cassa di espansione non si sarebbe mai sentito parlare della diga di Armorano; qualcun altro ha colto l’occasione proponendo un’opera la cui realizzazione creerebbero ottime occasioni business.
E’ incredibile vedere come l’Unione Industriali che ha proposto un progetto così invasivo sull’ambiente e sulla vita delle persone vi abitano non abbia fatto nessuna studio di impatto ambientale. Legittimamente essa è tenuta a tutelare l’interesse dei suoi associati mentre è compito e responsabilità della politica valutare le scelte che impattano sul territorio. La sola costruzione della diga porterebbe lauti guadagni alle imprese coinvolte e se poi le cose andassero diversamente da come previsto non è più un loro problema. Il problema resterà sulle spalle dei cittadini e della comunità che ne ha sostenuto il costo come troppo spesso succede nel nostro paese.
La diga di Ridracoli in Romagna si trova a solo quattro chilometri dal crinale in un luogo completamente disabitato a solo 4 km dal crinale.
 
La diga di Armorano si troverebbe nel centro di una valle abitata in un perenne stato di emergenza idrogeologica (in rosso sono state evidenziate le grandi frane di Chiastre, Casaelvatica e Cervellino).

sabato 6 luglio 2019

La stretta di Armorano

Ho letto con molta attenzione la documentazione fornita dall’Unione Industriali in occasione della presentazione del progetto della diga di Armorano.
Tabelle, grafici, istogrammi, curve sinusoidali, complicatissime formule matematiche, foto di idilliaci laghetti con le mucche al pascolo il tutto per dimostrare le straordinarie qualità della diga che, come una miracolosa medicina in grado di guarire qualsiasi malattia, porta ricchezza (non spiegano a
chi), turismo, canoa, pesca sportiva, acque di ottima qualità e quant’altro immaginando che l’invaso si trovi in una idilliaca valle alpina tra sorgenti perenni montagne granitiche indistruttibili.
NON E’ COSI’!!!
Non so se i progettisti abbiano mai visto la stretta di Armorano ma nel progetto NON C’E’ UNA SOLA PAROLA che, accennando alle numerose frane e al dissesto del nostro territorio, garantisca L’ASSOLUTA sicurezza dell’opera (si parla soltanto della sicurezza a valle rispetto alle pienetrattenute da bacino).
Mi permetto di ricordare ai progettisti che la val Baganza è una delle zone più franose d’Italia, che le sue montagne non sono fatte di solido granito ma di fango e rocce friabili, che il Vajont non è una favola e che quindi sarebbe il caso di spendere due parole al riguardo.
In altri termini prima di dirmi che nel mio territorio vuoi costruire una diga che contiene 62 milioni di mc d’acqua che resteranno per sempre sopra la mia testa mi devi aver fatto un accuratissimo studio geologico che dimostra nella MANIERA PIU’ ASSOLUTA e inoppugnabile che non esiste il ben che minimo e lontanissimo pericolo. Poi, semmai, possiamo parlare della diga.
Se invece mi vieni a dire che vuoi costruire un muraglione alto 100 metri e non mi dici niente (e forse non sai niente) di tutte le frane che ci sono li attorno allora vuol dire che ...
Le foto che seguono danno una idea di cosa succede in un raggio inferiore a 500 metri dalla stretta di Armorano.
Lascio a tutti voi i commenti del caso.


La foto satellitare mostra tutte le frane attualmente attive in un raggio di qualche centinaio di metri dalla stretta di Armorano. Non bisogna essere esperti geologi per comprendere che tutte queste frane, grandi o piccole che siano, testimoniano l’estrema fragilità dell’area che meriterebbe una accurata approfondita analisi prima ancora di parlare della diga.


Frana A: si tratta della famosa “Riva dei Preti” dove la provincia ha speso diverse centinaia di migliaia di euro nel vano tentativo di domarla. A causa dei lavori e delle continue cadute di massi la strada venne chiusa diverse volte per lunghi periodi. Ora la situazione, a seguito dei costosi lavori di manutenzione, sembra un po’ migliorata ma ciononostante continuano a cadere sassi
sulla carreggiata e tutto quelli che vi transitano nei giorni particolarmente piovosi danno sempre un’occhiata in su ... non si sa mai che caschi qualcosa.


Siamo nella così de.a “curva dei culoni” proprio nel punto in cui si vuole costruire il muraglione.
NON E’ UNA FRANA ma tutti coloro che vi transitano notano questo continuo sgretolamento della roccia a testimonianza della sua estrema fragilità. Periodicamente gli addetti alla manutenzione della strada rimuovono questo materiale ma dopo qualche giorno tutto ritorna come prima.


Frana B: si trova nella parte opposta della Riva dei Preti e si manifestò due o tre anni fa dopo piogge molto abbondanti.


Frana C: si trova subito dopo il ponte di ferro di Armorano. Una grossa rete trattiene in modo precario i massi che continuamente crollano dalla montagna. Ben conosciuta dagli automobilisti che vi transitano abitualmente i quali nei giorni di pioggia, nel tentativo di schivare i sassi che regolarmente si trovano sulla carreggiata, non nascondono i loro timori.


Frana E: Da questo precipizio cadono continuamente massi e detriti. Se fosse sommersa dall’acqua difficile credere che la situazione potrebbe migliorare.


Frana F: si trova alla foce del Rio d’Adello da dove cadono continuamente massi e detriti.



Frana G: si trova ai bordi della strada ed è ben conosciuta dagli automobilisti che vi transitano abitualmente.


Frana H: questa frana che si trova sopra l’abitato di Tavolana, si manifestò nel febbraio del 2014 subito dopo il taglio del bosco che la ricopriva e testimonia in modo evidente l’elevata franosità dell’intero territorio. Ora è stata rattoppata in qualche modo ma l’equilibrio appare ancora molto precario.

lunedì 24 giugno 2019

Ancora tagli sul monte Fuso


Sul torrente “Rio del Faino” hanno fatto una cosa simile a quello che han fatto nel torrente che divide il monte Lavacchio dal Faino oggetto del primo esposto, anche seppur in misura ridotta.
Anche in questo caso hanno fatto un taglio allucinante sul bosco sopra al torrente aprendo sul letto di esso una carraia.
A distanza di un anno, c’è ancora il letto del torrente coperto di legna.

Di seguito le foto di quanto han fatto:

Parte del taglio sul lato est del torrente
La strada aperta partendo dal lato ovest portandosi sul lato est e in primo piano
c’è proprio il nuovo “ponte” creato con la ruspa sopra al torrente
Esattamente a destra della foto precedente, la nuova carraia
prosegue nell’ormai ex bosco
Il nuovo “ponte” sul torrente visto più da vicino.
Nel letto stesso del torrente sono ben evidenti i resti dei tagli
Le piante sono state tagliate dopo che avevano già le foglie e che io sappia,
in questo periodo non si possono tagliare
Esattamente a sinistra del nuovo “ponte” si vede il letto del fiume che
invaso dalle piante tagliate, è diventato ormai invisibile
Altro particolare del bosco tagliato.

martedì 4 giugno 2019

REPORT E LA FRODE DEL PROSCIUTTO



Il programma TV REPORT ha trasmesso un servizio sulla frode alimentare che ha coinvolto il prosciutto di Parma e il San Daniele.
Circa 1 milione di cosce sono state sequestrate e 250.000 sono risultate non idonee rispetto alla disciplinare.
In sostanza, sono risultate provenienti da suini di razza DUROC, danesi e non italiani.
Allevatori e veterinari usavano da anni il seme della razza suina Danese per ottenere suini più magri, con meno scarti e con uno sviluppo più rapido.
L'intera filiera, dalla grande distribuzione ai macelli, chiedeva questo e i produttori si sono adeguati : cosce più magre e con minor scarto. Il consorzio ha fatto finta di non sapere e gli stagionatori pure.

UNA ENORME FRODE IN COMMERCIO, da cui nessuno della filiera è esente.

I prosciuttifici da Traversetolo a Langhirano e Sala sono un grande settore industriale, fonte di occupazione e di esportazione.
La deflazione mondiale, comprimendo tutti prezzi delle materie prime, ha fatto lo stesso con le cosce di maiale che arrivano da tutta Italia, favorendo un aumento della produzione, dell'export e dei guadagni.
In questo modo, però, sempre minore è stato il controllo del Consorzio sulla disciplinare che prevede che le cosce dei suini siano italiane e di 11 mesi, mentre spesso sono di 8 e importate dalla Romania.

Maiali cresciuti più in fretta con mangimi spinti e non regolamentati. Allevamenti con animali ammassati e trattati non come esseri viventi ma come cose. Con norme igieniche ridicole, quando non addirittura paurose.
Ed ora è arrivato questo scandalo a dirci che la frode commerciale era TOTALE, generalizzata.
Tutto per produrre di più e più rapidamente, a scapito della qualità.
Questo vale per tutti,anche per quelle piccole stagionature che producono ancora a livello artigianale e con eccellenza di qualità, che per stare sul mercato hanno dovuto adeguarsi. Ma vale soprattutto per le ditte maggiori che comprimono già i prezzi robottizzando le linee di produzione ed usando manovalanza generica, fornita dalle cooperative.

Robottizzazione che, nei confronti delle ditte artigiane che si servono ancora di operai specializzati, le avvantaggia anche dal punto di vista dei controlli sanitari e della medicina del lavoro, mentre lo sono già nell'export per i numeri maggiori del venduto.
Le responsabili principali di questa frode sono quindi le aziende maggiori, quelle che hanno in mano il Consorzio, ne decidono la politica. Sono loro che controllano gli allevamenti, perchè decidono i prezzi della materia prima.
Con i loro grandi numeri di venduto sul mercato internazionale sono anche in grado di ricattare i piccoli, costringendoli a seguirli perfino nella frode e soprattutto a tacere riguardo alla politica del Consorzio.

La tentazione delle aziende maggiori, passato lo scandalo, sarà quella di delocalizzare in futuro parte della produzione sfruttando il marchio che gli deriva dalla zona tipica.

Serioli Giuliano

mercoledì 22 maggio 2019

CONTRO L'ABBANDONO DELLA MONTAGNA

La montagna parmense è un corollario di disastri.
Frane, frazioni abbandonate, strade interrotte o difficilmente percorribili per il manto quasi sempre sfondato.
Senza un'economia è impossibile fare prevenzione e attuare una cura attenta del territorio.
In questi trent'anni l'industria ha distrutto l'artigianato e l'agricoltura di sussistenza, costringendo le genti a trovare occupazione altrove.


Oggi l'80% degli abitanti delle terre alte sono anziani, mentre i giovani lavorano nella pedemontana.
Prato Spilla, con l'impianto di risalita e l'albergo, è la testimonianza lampante degli errori fatti in passato dalle amministrazioni, dei soldi buttati al vento per un progetto turistico sbagliato.
Oggi, quei pochi finanziamenti si concentrano sulla legna.
Soldi dalla Regione per finanziare centrali a cippato, teleriscaldamento e produzione di energia elettrica e soldi per finanziare cooperative di taglio.
Questo nuovo filone si aggiunge alla devastazione causata dalla speculazione sulla legna da ardere in tutt'Italia.
Autorità e statistiche affermano che la superficie boschiva è in continuo aumento, mentre i boschi, in realtà, vanno in fumo.
Sembra un paradosso ma è la realtà : aumenta la superficie boscata ma diminuicono i boschi.
100.000 Km2 di superficie boschiva in Italia produce di suo un accrescimento annuale di 1.000 m2 al minuto, cioè 500 km2 di superficie in più ogni anno.
Che corrisponde a circa 5,4 milioni di tonnellate in più di legna. Che vanno a sopperire alla sottrazione dei 2 milioni di tonnellate di legna dichiarata tagliata, oltre ai 3,3 milioni
di tonnellate di legna importata, quasi totalmente per rifornire le centrali a cippato e le stufe a pellet.
Apparentemente siamo a posto, quello che viene tagliato è uguale a quello che riscresce naturalmente. Tutto si tiene, sembra non esserci alcun problema!
Ma statistiche di AIEL e di altre aziende del settore legno affermano che il consumo reale di legna in Italia è di circa 25 milioni di tonnellate.
Ciò vuol dire che se l'accrescimento naturale+la legna ufficialmente tagliata+ quella importata sono poco più di 10 milioni di tonnellate, gli altri 15 milioni sono tagliati in nero.
15 milioni di tonnellate corrispondono a 1.500 km2 di boschi che spariscono ogni anno dal nostro patrimonio boschivo. Tre volte tanto l'accrescimento naturale.
Certo la superficie boschiva non scompare, ma per almeno trent'anni i boschi tagliati non ci sono, stanno solo ricrescendo lentamente.
Così i nostri boschi vanno in fumo, è la speculazione sulla legna da ardere.
Si finge poi che il taglio della risorsa bosco crei un'economia, inondi di soldi i borghi e impedisca che negozi e servizi chiudano.
I soldi invece sciamano lontano, come i camion verso la pianura, per giungere nelle tasche di chi la legna la commercia.
Ancor meno economia creano le centrali a cippato, né lavoro.
Centrali che sono impianti industriali senza filtri, con solo un multiciclone per raccogliere le ceneri volanti.
Del cui calore possono usufruire solo i residenti nel capoluogo, mentre le frazioni  ne sono totalmente escluse.
Per contrastare i tagli speculativi, le frane, il dissesto delle strade, per fermare l'abbandono della montagna occorre crearvi un'economia.

Canalizzare i finanziamenti nell'edilizia per il recupero dei borghi col risparmio energetico, capace di costruire una ricezione dignitosa, oggi inesistente, per un turismo diffuso.
Una ricezione capace di contrastare l'abbandono sempre più massiccio delle seconde case ed il loro totale disfacimento.
Un turismo basato inizialmente su una serie di piccole strutture nei borghi in grado di supportare a livello di accoglienza e logistica i percorsi turistici della alte vie, coordinati ai rifugi esistenti e soprattutto a quelli abbandonati e da ripristinare.
Un turismo collegato ai parchi e alla possibilità che questi non rimangano solo sulla carta, ma si facciano portavoce della praticabilità della natura nelle scuole e nell'università.
Lo scoutismo è un'esperienza positiva che va allargata alla scuola dell'obbligo, con una leva di guide volontarie capaci di  organizzare e condurre i ragazzi, anche dal punto di vista descrittivo e culturale.
Tramite le unioni di comuni occorre costruire condizioni infrastrutturali (ad esempio macelli intercomunali), fornire incentivi finanziari, locativi e disponibilità bancarie ad iniziative per la produzione e la stagionatura artigianali di eccellenze alimentari che l'aria pulita e l'elevata umidità possono garantire con un livello superiore di qualità rispetto alla loro produzione industriale.
Che si è impiantata anche nella nostra montagna con stalle di 500 vacche che, oltre ad imporre condizioni insostenibili di vita agli animali, non producono lavoro in loco.
E' pensabile trasformare dei giovani senza lavoro in artigiani di montagna, dei laureati senza occupazione in imprenditori di se stessi con idee giuste per un agroalimentare di eccellenza.

serioli giuliano


sabato 16 marzo 2019

DIGHE,CASSE, TRACIMAZIONI CONTROLLATE


Si fa un gran parlare di dighe nel nostro Appennino. Quella di Armorano
come alternativa alla cassa d'espansione sul Baganza, quella di Vetto soprattutto come
scorta di acqua per i periodi siccitosi. Le dighe nella nostra montagna sono minime ed in alto,
Verde, Ballano,lagastrello.



Ci sarà un motivo!
Le formazioni rocciose,prevalentemente argillitiche e marnose, fanno si che
i torrenti scavino a più non posso quella roccia friabile producendo un elevato trasporto solido a valle.
Un esempio è la diga del Piacentino sul Trebbia, degli anni ’30, che ha creato un lago grigiastro per l’apporto di sedimenti e che tende ad interrarsi sempre più.
Poi l'abbiamo già detto, le fondamenta di una diga bloccherebbero la corrente di subalveo
del torrente e la conoide dell'alta pianura resterebbe asciutta.
Che senso ha costruire un manufatto da cui far scendere l'acqua che verrebbe a mancare
in pianura proprio a causa della diga stessa?
Una cosa da Sisifo e Tantalo.
Si dice, inoltre, che si avrebbe da esse energia elettrica, ma nel caso ci vorrebbe un salto notevole
per produrla, cioè il livello dell'acqua dentro la diga dovrebbe essere sufficientemente elevato.
Quindi pericoloso, in caso di piogge concentrate in breve tempo ed improvvise, cui il cambiamento climatico ci ha già ampiamente dato prova con la piena del Baganza dell’ottobre 2014.
Si parla anche di uso plurimo delle stesse, cioè di trattenere acqua, produrre energia e fare in qualche
modo anche da cassa d’espansione per eventuali copiose ed improvvise precipitazioni.
Siamo davvero convinti che una cosa così complessa come un uso plurimo sia adatto a piccoli invasi
su una montagna come la nostra che, per sua struttura, provoca grandi piene improvvise?
E poi un altro manufatto, un'altra cementificazione costosa ad imbrigliare
il torrente.
E la zona SIC? Andrà a farsi benedire, così come migliaia di piante della valle.
Un non senso. Quando c'è una vera alternativa :

TRACIMAZIONI CONTROLLATE E RICARICA NATURALE DELLE FALDE

Un modo economico ed efficace di ricarica naturale delle falde acquifere è l'inondazione
di aree estese in occasione delle piene.
Alle falde acquifere delle conoidi dei torrenti appenninici non manca l'acqua solo
nelle estati siccitose, manca già in piena primavera quando i coltivi ne abbisognano.
Per trovarla si arriva a pescare nei pozzi fino a 100 metri di profondità.
La logica suggerirebbe di ricaricare tali falde sotterranee durante le
piene autunnali,allagando le campagne con esondazioni controllate e sfioratoi
appositamente dedicati lungo le aste dei torrenti.
Servirebbero anche traverse per convogliare parte dell'acqua torrentizia
in vasche di sedimentazione e di ricarica, usando cave estinte.
Ma il principio da utilizzare è di conservare l'acqua di alluvioni
controllate per ricaricare con la stessa le falde sotterranee.
Si eviterebbe così la necessità di manufatti costosi ed insufficienti,
come dighe montane e casse d'espansione in pianura,
che porterebbero ad una ulteriore, nefasta cementificazione del regime
acquifero e del nostro territorio.


In più l'estensione della falda sotterranea potrebbe essere rimpinguata da pozzi
a dispersione e da gallerie di infiltrazione a fianco dell'asta torrentizia.
In pratica, c’è da aver chiaro che una cassa d'espansione non è altro che un innalzamento
abnorme degli argini di un torrente in un determinato sito.
Quello dell'innalzamento degli argini è una via senza sbocco per diversi
fiumi già troppo antropizzati.
Alcuni tecnici, come Berselli, dicono che una cassa d'espansione è necessaria ma non
sufficiente.
E' un'affermazione che ha poco senso : se non è sufficiente, una spesa così gravosa
come quella di una cassa d’espansione non è neanche necessaria.
E l'alternativa esiste : AREE ALLUVIONABILI.
Di fatto, esistono zone allagabili nelle nostre campagne e il periodo stesso
autunnale delle piene corrisponde alla messa a riposo della terra dopo i raccolti.
Eventuali danni ai coltivi ed alle case isolate di agricoltori sono molto meno gravosi
di quelli di interi paesi sott'acqua o addirittura di quartieri della città e sicuramente
più facilmente e rapidamente rifondibili.
Si tratta in molti casi di vecchie golene strappate ai corsi d'acqua che
potrebbero gradualmente tornare al loro antico ruolo.
Di fatto, sono casse d'espansione naturali,
le antiche aree golenali fa ripristinare in parte.

Serioli Giuliano

ReteambienteParma




martedì 12 febbraio 2019

FALDE ACQUIFERE ED ALLUVIONI


Uno dei modi di ricarica naturale delle falde acquifere è l'inondazione
di aree estese in occasione delle piene.
Alle falde acquifere delle conoidi dei torrenti appenninici manca
l'acqua nelle estati siccitose.
Per trovarla si arriva a pescare nei pozzi fino a 100 metri di profondità.
Si fa un gran parlare di invasi di montagna con dighe per trattenere
l'acqua e rifornire così la pianura,
con gravi problemi di costi, di perdita di aree boschive SIC ( siti di
interesse comunitario) e di erosione dei sedimenti rocciosi delle nostre
montagne.
La logica suggerirebbe di ricaricare tali falde sotterranee durante le
piene autunnali,
alluvionando le campagne con esondazioni controllate e sfioratoi
appositamente dedicati.
Servirebbero anche traverse per convogliare parte dell'acqua torrentizia
in vasche di sedimentazione e di ricarica, usando cave estinte.
Ma il principio da utilizzare è di conservare l'acqua di alluvioni
controllate per ricaricare con la stessa le falde sotterranee.
Si eviterebbe così la necessità di manufatti costosi ed insufficienti,
come dighe montane e casse d'espansione in pianura,
che porterebbero ad una ulteriore, nefasta cementificazione del regime
acquifero e del nostro territorio.
A parte considerazioni ambientali e di costi, il problema generato da
tali manufatti è l'eccesso di sedimenti che in breve tempo
ne pregiudicherebbe la funzionalità, dato il carattere argillitico del
substrato roccioso del nostro Appennino.
Al contrario l'estensione della falda sotterranea potrebbe essere
rimpinguata da pozzi a dispersione e da gallerie di infiltrazione a fianco
dell'asta torrintizia.
In pratica una cassa d'espansione non è altro che un innalzamento
abnorme degli argini di un torrente in un determinato sito.
Quello dell'innalzamento degli argini è una via senza sbocco per diversi
fiumi già troppo antropizzati. E' il Caso del Po, dove da tempo si
parla di tracimazioni controllate perchè innalzare ancor più gli argini
è impossibile e pericoloso.
Alcuni tecnici dicono che una cassa d'espansione è necessaria ma non
sufficiente.
E' un'affermazione che ha poco senso : se non è sufficiente non è
neanche necessaria. E l'alternativa esiste, è un'altra, aree alluvionabili.
Di fatto le zone alluvionabili ci sono nelle nostre campagne e i danni
ai coltivi ed alle case isolate di agricoltori sono molto meno gravosi
che non quelli di interi paesi sott'acqua e sono più facilmente e
rapidamente rifondibili.
Si tratta in molti casi di vecchie golene strappate ai corsi d'acqua che
potrebbero gradualmente tornare al loro antico ruolo.
Di fatto, sono casse d'espansione naturali e l'infiltrazione dell'acqua
le renderà ancora più fertili di quanto non siano oggi perchè l'acqua
stessa, trattenuta
in cave o laghetti artificiali, sarà utilizzabile nella stagione secca.

Serioli Giuliano

ReteambienteParma

venerdì 1 febbraio 2019

AUTORITA' DI BACINO E DIGA DI VETTO

L'Autorità di bacino del Po è stata investita dalla Regione Emilia del 
ruolo di decisore della fattibilità tecnica di un invaso a Vetto.
Dopo l'alluvione a Lentigione il problema è anche di sicurezza nei 
confronti della popolazioni della bassa, ma il problema principale è 
irriguo :
manca l'acqua nella Pedemontana, sia Reggiana che Parmigiana.
La temperatura degli ultimi anni tende a crescere e nel contempo le 
piogge tendono a diminuire nella media annuale.


Di più, le piogge durano poco ma con una intensità mai vista prima. 
Arrivano prevalentemente in autunno, dopo la siccità estiva, e trovano 
una terra indurita
per cui scivolano via verso il torrente Enza ingrossandolo a dismisura. 
Di quell'acqua non filtra niente nel suolo, va direttamente in Po, 
magari facendo
danni, come a Lentigione o come nel quartiere Montanara a Parma nel 2014 
ad opera del torrente Baganza.
I coltivi di pianura hanno bisogno d'acqua soprattutto d'estate ma la 
falda ne ha sempre meno e i pozzi nella pedemontana arrivano a pescare 
fino a 100
metri di profondità. Siamo alla frutta, manca l'acqua nella zona del 
parmigiano reggiano. Occorre trovare una soluzione in fretta.
L'annoso e sterile dibattito sulla diga di Vetto torna improvvisamente 
di attualità.
Ma non i 120 milioni di m3 di invaso del vecchio progetto caldeggiato 
dal povero Lino Franzini, sindaco di Palanzano, lasciato solo a parlare 
al vento  sognando
uno sviluppo turistico della montagna legato al lago. Un sogno folle e 
sterile come l'invaso di acque grigiastre sul torrente Arda testimonia 
da tempo.
No, uno di dimensioni molto più contenute, pare di 40 milioni di m3, 
utile alla bisogna, ma senza essere troppo invasivo, che metta d'accordo 
tutti, ambientalisti ed agricoltori e senza, soprattutto, scontri 
ideologici tra fautori delle dighe e loro detrattori.
Ma come faranno i nostri tecnici a fare i conti coi problemi che una 
diga comporta nel nostro territorio montano?
Con l'interruzione del deflusso di subalveo del torrente, quello che 
alimenta la falda sotterranea della conoide pedemontana?
Dove pescheranno l'acqua i pozzi degli agricoltori se già ora non la 
trovano a 100 metri di profondità?
Ma soprattutto, come farà il lago che si creerà a monte della diga a non 
riempirsi di sedimenti per l'enorme trasporto solido delle acque di piena?
Occorre, infatti, considerare la struttura flyschoide-argillitica delle 
rocce della valle che le piogge battenti eroderanno in gran quantità 
convogliandole
all'interno dell'invaso.
Come si farà, in tal modo, a produrre energia elettrica? Fatale sarà 
ogni 2 o 3 anni svuotare il lago e togliere i sedimenti che havranno 
preso il posto dell'acqua.
Non è più ragionevole, come afferma il professor Valloni, dotare l'asta 
del torrente di laghetti di cava o artificiali nella conoide in modo 
che  si allarghi la
falda sotterranea alimentata dalle piogge primaverili ed invernali?
Non è più logico dotare il torrente di traverse che portino l'acqua a 
tale sistema di laghetti quando le piene autunnali rovescieranno il loro 
carico abnorme?
Trattenedone una parte consistente in modo che la bassa non vada sotto?
Molto meglio un progetto di fiume che non una diga, o che una cassa 
d'espansione.
Si, meglio anche di una cassa d'espansione. Perchè se il futuro ci 
riserva le sorprese sgradevoli di un cambiamento climatico è chiaro che 
neanche una cassa d'espansione di capacità millenaria sarà in grado di 
far fronte alle masse d'acqua che tali eventi produrranno. Mentre 
tracimazioni controllate in terreni agricoli
riusciranno a sfogarle senza arrivare nei centri abitati.
La rifusione dei danni sarà molto meno costosa di dighe o casse 
d'espansione, per le quali si parla di diverse decine di milioni di euro.


Vetto d'Enza 31-01- 2019

Serioli Giuliano

ReteambienteParma