Si fa un gran parlare di dighe e casse d'espansione quali soluzioni definitive ai problemi posti dalle ultime alluvioni.
Il tempo di ritorno di un evento meteo, come una forte pioggia, o addirittura un'alluvione, è T= 1/p. In cui p è la probabilità.
Quando T =1/100 vuol dire che la probabilità che un evento capiti negli anni a venire è dell'1%. Quando T =1/1000 e dell'uno per mille.
L'alluvione che ha colpito la città nell'ottobre 2014 ha avuto un tempo di ritorno duecentennale, T=1/200.
Cioè la probabilità che si verifichi altre volte è molto bassa statisticamente.
Ma la statistica riguarda lo storico delle alluvioni già avvenute, non contempera variabili nuove come il cambiamento climatico in atto.
Peraltro, come riportato in studi del prof. Valloni, già in passato il livello di piogge che ha colpito il nostro Appennino era incredibilmente predittivo di ciò che sarebbe successo dopo : nel 1970 il livello di piogge a Marra aveva un tempo di ritorno addirittura millenario dopo 9 ore di pioggia. L'Appennino settentrionale, come ci testimonia la Liguria, non è solo colpito da nord ma è barriera perpendicolare ad ogni sistema di nubi che arrivi da sud.
Col cambiamento climatico in atto non è solo in grave pericolo alluvioni la Liguria, ma anche l'alta pianura dell'Emilia, l'altro versante del Nord Appennino.
Le dighe in montagna per prevenire le alluvioni in pianura sono pura follia.
Quella di Vetto di cui si parla, ma anche quella ipotizzata ad Armorano in val Baganza, finirebbero con l'essere una enorme occupazione di suolo montano e soprattutto distruzione di boschi con una misera produzione di energia eletterica a meno che non si voglia che il salto sia massimo e l'acqua raggiunga il colmo stagionale.
Cosa estremamente pericolosa. Infatti, in caso di forti piogge a monte, l'acqua tracimerebbe dalle dighe provocando un disastro peggiore dell'alluvione medesima.
In più, le fondamenta necessarie alla costruzione di una diga bloccherebbero del tutto la corrente di subalveo che alimenta le conoidi di sbocco dei torrenti nell'alta pianura, il cui spessore arriva anche a 100 metri, togliendo acqua ai pozzi che servono ad irrigare i coltivi, già di loro non sufficienti alla bisogna.
Quindi anche la funzione irrigua, tramite canalizzazioni, delle dighe stesse sarebbe vanificata dall'interruzione della corrente di subalveo.
Da una parte si darebbe acqua e dall'altra la si toglierebbe.
Un non senso logico ed uno sperpero di soldi pubblici.
La ipotizzata diga di Vetto, di cui si è tornato a parlare in alto loco, fa male alla montagna.
L'invaso così creato si riempirebbe rapidamente di sedimenti apportati dall'Enza e dal Cedra, data la litologia prevalentemente argillitica del substrato roccioso.
Quella massa d'acqua dell'invaso che si produrrebbe avrebbe un effetto anche sui versanti montani, creando frane e dissesti.
Quanto al preconizzato vantaggio turistico occorre pensare all'effetto che i sedimenti argillitici avranno sulla colorazione del lago, non dissimile dalle acque grigiastre dell'invaso di Mignano nel Piacentino in cui, per di più, circa il 20% del volume invasato viene a disperdersi per percolazione, infiltrazione ed evaporazione prima che l’acqua giunga alla bocca di presa dell’agricoltore.
Lo stesso direttore dell'Agenzia di bacino del Po ammette che la cassa d'espansione del Casale di Felino non è sufficiente a fermare le piene che arriveranno col cambiamento climatico. Che occorreranno anche tracimazioni controllate.
Ma è ciò che sosteniamo noi!
Perchè allora spendere 1,7 milioni per un studio esecutivo della cassa della durata di un anno se non risolve il problema alluvioni?
Perchè soprattutto spendere 61 milioni per costruirla che diventeranno sicuramente 80 a lavori ultimati?
Perchè costruire una cassa al Casale che non garantisce da alluvioni nemmeno Colorno?
Quando la soluzione c'è e costa molto meno.
Quando la soluzione delle tracimazioni controllate permette di modulare gli interventi a seconda dei cambiamenti in atto, allagando parti di campagna nei mesi di fine ottobre/novembre quando i coltivi sono stati già raccolti, attraverso sfioratoi negli argini direttamente collegati al monitoraggio delle piagge in alta montagna?
Risarcendo direttamente gli agricoltori, coivolti in tal modo in una DIFESA ATTIVA, con costi molto inferiori a quelli della cassa?
la gente ormai ha capito, le grandi opere servono solo a chi le costruisce per far soldi.
"Non ho paura della cattiveria dei malvagi, ma del silenzio degli onesti". (Martin Luther King JR)
venerdì 28 dicembre 2018
giovedì 20 dicembre 2018
Rischi idrogeologici a Colorno
Comunicato stampa dell'ing. Roberto Colla membro del coordinamento per i rischi idrogeologici, del gruppo AMO - COLORNO:
Il giorno 7 dicembre presso la sala del consiglio comunale di Colorno, si è svolto un importante incontro riguardante le opere realizzate da Aipo ed Enti assimilabili (Autorità di bacino e Bonifica Parmense) per le difese idrauliche dei territori.
Le dettagliate descrizioni di opere nei centri abitati rivolte a difese puntuali dei punti critici hanno evidenziato da subito una impostazione idraulico/filosofica molto discutibile. Si è parlato di milioni di euro spesi in interventi tesi a rinforzare strutture portanti sempre in crisi per le enormi pressioni idrodinamiche nelle fasi di piena. Ricordo, molto stupito, di un dilemma su aperture vetrate con wasistas (?!) per far sfiorare i portici della Reggia....Oppure di rinforzi dei ponticelli soggetti a incoerenti spinte trasversali. Se questi denari fossero stati messi a disposizione per sottrarre definitivamente le piene dai centri abitati, oggi non ci sarebbero più problemi. E così si è chiesto ai tecnici di Aipo come mai non si sono indirizzati verso le cosiddette "tracimazioni controllate" nonostante la pubblicità fatta. Secondo loro trattavasi esclusivamente di far sormontare dalle acque le arginature esistenti in zone ben definite. Caso raro. Secondo noi trattasi invece di ogni presidio idraulico teso a scaricare le acque in aree esterne all'alveo, come diversivi, traverse, scolmatori, sfiratori, ecc. fattibili in ogni conformazione geomorfologica, come ad esempio nell'alveo inciso del Baganza. Chiariti i termini, sono iniziati i dubbi. Forti dubbi. Interesse di Aipo è continuare a lavorare puntualmente per tentare di difendere i centri abitati agendo in funzione dei livelli di piena, peraltro in perenne aumento, vuoi per le piogge pazze di oggi, vuoi per le continue diminuzioni degli attriti dovuti a folli disboscamenti o interventi in alveo. Soprattutto facendosi finanziare a suon di milioni. Ma non certo per costruire opere definitive. Un Sindaco accorto allora dovrebbe cominciare ad avere anch'esso i nostri dubbi; in Università hanno sofisticati programmi che determinano le zone esondabili dei bacini fluviali in funzione delle portate, egli dovrebbe utilizzarli per appaltare le facili opere di pubblica utilità per una difesa definitiva, semplicemente facendosi dirottare i finanziamenti continuamente mal spesi da Aipo. In pratica si tratterebbe per lo più di scavare canali derivatori verso laghetti di accumulo, molto utili per l'irrigazione estiva. Progettazione scartata, come affermato da Aipo, con motivazioni assolutamente risibili: costi eccessivi e mancanza di aree esondabili. È esattamente l'opposto. I costi sarebbero decine di volte inferiori e le aree esondabili nei bacini pluviali di pianura sono praticamente infinite.....ma soprattutto il tutto si risolverebbe in pochi mesi. Altro importante risultato sarebbe la verifica, per quanto occorrer possa, della inutilità delle costose e devastanti casse di espansione. Ma in tal modo.....ad Aipo cosa resta?
Forse però la situazione più delicata e assurda spetta ai perenni alluvionati. Mentre le esondazioni/tracimazioni controllate/programmate difenderebbero in maniera veloce ed efficace i centri abitati, l'impostazione di Aipo lascia tutto tal quale ed incerto per anni a venire. Compreso la cassa di espansione di Casale, la quale, anche se realizzata, potrebbe non essere di capacità sufficente. Oltretutto nessuno sa cosa succede con determinate piogge nel bacino che sottende l'alveo nel tragitto verso Colorno!. La prova è che, secondo i loro sofisticati (?!) calcoli, Colorno non si sarebbe dovuta allagare con la piena ultima di un anno fa. Quindi ai calcoli nessuno deve più credere. Chi, come noi, li ha sperimentati sa che, ad iniziare dalle piogge storiche, dai coefficienti di attrito o di permeabilità e per finire alle portate solide, molto meglio è l'esperienza del barcaiolo/pescatore.
Ing. Roberto Colla
Coordinatore rischi idrogeologici
AMO - COLORNO
Coordinatore rischi idrogeologici
AMO - COLORNO
mercoledì 21 novembre 2018
Felino, un convitato di pietra
Un patto di fiume nemmeno cominciato.
Un
semplice elenco di cose da fare, senza contenuti che le tenessero
assieme.
Tanta
gente in un posto angusto che il sindaco di Felino Elisa Leoni voleva
trasformare in un successo della sua iniziativa burocratica, senza
riuscirvi.
I
dirigenti di Aipo e il sindaco di Felino (dagli altri paesi, nessuno)
si aspettavano quattro gatti volenterosi da piazzare ai tavoli, a cui
far vedere alcune slide e raccogliere solo piccole osservazioni su
qualche problema di strade o frane collegate al decorso del torrente
Baganza.
Ma
l'incontro come lo intendevano è saltato.
Non
era materialmente possibile dividersi in tavoli, non c'era spazio e
c'era troppa gente.
Soprattutto
si sentiva nell'aria che ci si si aspettava dell'altro.
Cesare
Azzali, presidente dell’Unione Industriali, ha posto subito la
questione di sostanza.
Non
bastava un elenco di temi generici, occorreva un'analisi, un contesto
in cui inserire i vari temi di una problematica idrogeologica lungo
l'asse del torrente. Visto che non veniva data né ce n'era
l'intenzione si è alzato per andarsene.
A
quel punto, per fermare L'Unione Industriali e cercare di salvare
l'incontro, è intervenuto Meuccio Berselli di Aipo, che ha cercato
di mediare tra l'esigenza di capire più in generale i problemi e la
necessità di Aipo di avere delle carte compilate di problemi
specifici lungo l'asse torrentizio e viario.
Mediare
tra due esigenze, un dibattito a tutto campo e un incontro solo
tecnico, ormai era impossibile.
Retetambiente
Parma ha posto lo stesso tema di Azzali: non è possibile entrare nei
dettagli se prima non viene fatta un'analisi a 360 gradi.
Il
ruolo del bosco e dei tagli boschivi nel creare punti critici in caso
di forti piogge, che porterebe a valle tutte le ramaglie abbandonate
dopo i tagli.
Il
problema del 20% di franosità del territorio montano che avrebbe
concorso in modi differenti nel creare altrettante criticità.
Infine
il vero convitato di pietra dell'incontro, la cassa d'espansione sul
Baganza, adottata da Aipo. Tema, non a caso, sollevato da Luigi
Fereoli chiedendo la possibilità di discutere eventuali alternative.
Aipo
ha ribadito che il tema cassa fosse chiuso definitivamente e non
all’ordine del giorno.
A
quel punto Meuccio Berselli ha capito la piega che stava prendendo
l’incontro e se ne è andato.
Se
ne sono andati, poi, Cesare Azzali e quelli dell'Unione Industriali,
che pochi giorni prima avevano avanzato sui giornali un progetto
alternativo alla cassa d'espansione sul Baganza a firma di Stefano
Orlandini, ordinario di costruzioni idrauliche di Unimore, che
prevede una diga di contenimento ad Armorano, sopra Calestano.
Ha
abbandonato l’incontro Reteambiente Parma e l'ingegner Roberto
Colla, del comitato di Colorno, che in alternativa propongono di
alzare gli argini del Baganza con sversamenti controllati nelle
campagne a fianco, in caso di piena, per trattenere l'acqua in
laghetti lungo l'asta del torrente in modo da usarla a livello
agricolo durante la siccità estiva.
Il
convitato di pietra si era fatto largo: si voleva ridiscutere della
Cassa sul Baganza. Aipo no. Così è finita l'assemblea ed è saltato
il Patto di fiume a Felino. Anche il Comitato contro la Cassa
d'espansione ha abbandonato.
Non
si poteva discutere di cosa fare in alto senza esser d'accordo su
cosa fare in basso.
Una
pietra sopra il patto.
Giuliano
Serioli
Rete
Ambiente
Parma
salvaguardia
e sostenibilità del
territorio
lunedì 5 novembre 2018
Boschi in fumo
Pare
che l'Istat non raccolga più dati sui tagli di legname nel nostro
paese dal 2017.
Fino
al 2016 però sono disponibili tutti i dati relativi.
Il
Bilancio Energetico Nazionale riporta che nel 2016 il consumo di
legna da ardere in Italia si è assestato su 25 milioni di
tonnellate.
Circa
il 20% di famiglie italiane si serve di legna da ardere per il
riscaldamento.
Infatti
negli ultimi anni sono state vendute 2 milioni di stufe a pellet e
circa 300 Mega Watt termici ed elettrici sono stati prodotti dalle
centrali a biomassa, frutto della speculazione che la cosiddetta
green economy perpetua sulle nostre bollette, incamerando gli
incentivi per la produzione di energia
"verde"
e rilasciando in cambio polveri sottili e veleni per tutta la
penisola.
Le
centrali a biomassa, dall'Alto Adige alla Calabria, passando per
Russi in Emilia, producono energia elettrica, disperdendo la gran
parte di quella termica, e vengono alimentate quasi del tutto da
legna importata dall'estero via nave, catalogata come scarto di
deforestazione.
Sono
esattamente i 3,3 milioni di tonnellate che troviamo nella relazione
del Bilancio Energetico Nazionale quale legna importata.
A
bilancio figurano quindi non più di 2 milioni di tonnellate di legna
di produzione nazionale. Sembrerebbe che il prelievo di legna dai
nostri boschi sia di conseguenza quasi nullo.
La
superficie forestale del nostro paese, infatti, è di 10 milioni di
ettari, cioè 100.000 km quadrati, un terzo della superficie del
Paese.
A
causa dell'abbandono della fascia montana dell'Appennino, tale
superficie boscata ha un ritmo di crescita eccezionale, 1.000 metri
quadrati al minuto, cioè circa 500 km quadrati all'anno.
Vuol
dire che la superficie boscata immette ogni anno 5,45 milioni di
tonnellate di legna prelevabile in più. Proprio uguale a quei 5,3
milioni di tonnellate di legna registrati a bilancio tra quella
prodotta in chiaro e quella importata.
Occorre
considerare però che l’accrescimento naturale non corrisponde ad
alberi in più ma ad apparato fogliare accresciuto e cimali soltanto.
Ma
allora tutti gli articoli di giornale sui tagli dissennati dei
boschi, sui prelievi eccessivi che mettono a rischio frane il nostro
paese sono una bufala?
Ovviamente
no.
Se
al consumo di legna da ardere (25 milioni di tonnellate) togliamo
l'accrescimento naturale dei boschi, le importazioni e il taglio
dichiarato in chiaro (in totale 10,3 milioni di tonnellate) restano
ben 15 milioni di tonnellate di legna tagliata “in nero” sui
monti del nostro paese.
Le
autorità nazionali e locali che si vantano della crescita costante
dei boschi, che è solo apparato fogliare in più, fanno finta di
niente sui tagli nascosti.
Se
la legna prelevabile cresce naturalmente ogni anno di 5 milioni di
tonnellate, nello stesso tempo cala di 20 milioni di tonnellate per i
tagli nascosti.
Il
saldo negativo è evidente: ogni anno perdiamo 1.500 km quadrati di
boschi, cioè 150.000 ettari (-1,5% ogni anno).
Lo
mettiamo in rilievo, parliamo di boschi e non di superficie boschiva.
I
nostri burocrati locali faranno a gara per rispondere a gran voce che
non si perde niente, che non si tratta di superficie boschiva, che i
boschi ricrescono.
A
loro rispondiamo in anticipo che quelle superfici metteranno
trent'anni a tornare come prima.
Ogni
anno perdiamo una quota di bosco.
I
tagli avvengono soprattutto sull’appennino tosco emiliano e su
quello ligure, le zone più vicine alla grande diffusione di stufe a
pellet, che quindi in questi ultimi 10 anni piccole matricine o
piante di pochi anni hanno preso il posto di boschi invecchiati su
circa il 25% della superficie boschiva di queste aree.
I
tagli rasi sono quasi la totalità, lasciando solo cespuglieti.
Il
danno idrogeologico è immane a fronte del cambiamento climatico.
Ci
saranno sempre meno radici di piante adulte a trattenere i pendii del
nostro Appennino, strutturalmente franoso di suo.
La
superficie foliare, capace di contrastare le bombe d'acqua, sarà
sempre minore.
Ne
risentirà il paesaggio e il turismo, fonte principale di introiti
economici per la nostra montagna.
Gli
introiti della gran parte dei tagli vanno ad aziende che pagano in
nero gente dell'Est Europa, esentasse.
Di
questi soldi niente o poco rimane ad alimentare le economie dei
borghi sempre più abbandonati, che devono ricorrere all'unità con
comuni limitrofi per poter garantire i servizi minimi con economie di
scala.
I
dati sono tratti dal convegno promosso da AIEL del 23 febbrario 2018.
Giuliano
Serioli
Rete
Ambiente
Parma
salvaguardia
e sostenibilità del
territorio
sabato 20 ottobre 2018
Biomasse, una coltre nera nei polmoni
I
tagli dissennati sul nostro appennino si susseguono.
Taglio
raso di un'abetaia di 20 ettari nel reggiano a Succiso. Taglio sul
Lavecchio e sul Fuso, su pendii ripidi attorno e sopra i 45° di
pendenza, tali da provocare frane di scorrimento di un suolo
strutturalmente sottile per le caratteristiche di impermeabilità del
flysch omonimo.
Tutta
la nostra montagna è soggetta a tagli sconsiderati di boschi.
Motoseghe in mano a operatori dell'Est che lavorano in nero e che
utilizzano attrezzature industriali per tagliare, cippare,
trasportare, trasformando sentieri in carraie e mettendo a rischio
interi pendii alle prime forti piogge.
Se
qualcuno pensa ancora che l'energia da biomasse sia stata concepita
per nobili fini ambientali si sbaglia di grosso.
Gli
“scarti” legnosi sono ormai tutti diretti alle centrali a
biomassa con grave danno anche all'industria del mobile che da questi
scarti ricavava pannelli multistrato.
E'
l'import, quindi, che sostiene la speculazione.
Alla
scusa della pulizia dei boschi non crede più nessuno.
Pellet
dalla Germania che utilizza legname bielorusso, pellet che viaggia
per centinaia di km per tutta Europa. O cippato e ramaglie
dall'Austria, dalla Croazia. Ma ci sono anche navi che portano in
Europa materiale legnoso dall’Estremo Oriente e dalle Americhe,
dove si tagliano foreste naturali. O cippato da piantagioni a rapida
crescita (con uso di ogm e pesticidi) lungo il corso del Po.
L'uso
di energia da biomasse non provoca solo aumento di polveri sottili ma
anche di pericolosi microinquinanti. Nei fumi che si crerano con la
combustione del legno sono presenti sostanze tossiche e cancerogene
quali benzene, formaldeide, idrocarburi policiclici aromatici (IPA),
diossine, polveri fini ed ultrafini.
Un
preciso marker è il benzopirene, una molecola da tempo classificata
come cancerogena: dove si brucia legna la presenza di benzopirene
aumenta nettamente. Eppure anche in aree critiche come la Pianura
Padana, dove la soglia massima di benzopirene di 1 nanogrammo
(milionesimo di grammo) fissata dalla Ue è già superata, si
autorizzano centrali a cippato e a scarti legnosi da diversi megawatt
termici se non decine e decine come in Trentino-Alto Adige o in
Puglia e Calabria.
Mentre
una centrale termoelettrica con caldaia e turbina alimentata a
cippato ha una efficienza elettrica del 15%, una centrale
termoelettrica moderna a gas naturale “turbo-gas” ha efficienze
elettriche del 60%. Unita alla grande differenza nelle emissioni. Una
centrale a biomasse legnose dovrebbe rispettare limiti di 20-30
mg/Nmc (metro cubo normalizzato alla pressione atmosferica e alla
temperatura di 0°C.) di polveri totali. Una centrale a gas naturale
emette polveri totali in misura inferiore a 1 mg/Nmc.
Enel,
però, sottoutilizza le centrali a turbo-gas per obbedire al diktat
dell'immissione prioritaria in rete di energia elettrica da biomasse.
In Pianura Padana è un attentato alla salute, la scelta consapevole
di far morire delle persone in più per favorire una pura
speculazione finanziaria.
Studi
epidemiologici sperimentali evidenziano una possibile correlazione
tra esposizione a fumo di legna e effetti sulla salute.
Diminuita
funzionalità polmonare, ridotta resistenza alle infezioni, aumento
dell'incidenza e della gravità dell'asma. L'esposizione a fumo di
legna produce effetti simili a quelli dell'inalazione di particelle
da combustione di combustibili fossili. Forse peggio, come
evidenziano statistiche che calcolano 480.000 morti in Europa per
particolato e fumi.
Ci
stiamo annerendo tutti quanti.
E
solo per una questione di business.
Giuliano
Serioli
Rete
Ambiente Parma
salvaguardia
e sostenibilità del territorio
lunedì 8 ottobre 2018
Energia, ambiente, sostenibilità
L'economia
liberista e la finanza internazionale che la governa non trovano
ostacoli alla loro espansione energivora.
Il
consumo non riguarda però soltanto l’energia, ma soprattutto
l'ambiente naturale dal quale essa viene estratta.
Tutte
le amministrazioni locali cercano di contemperare, a parole, l'uso
paesaggistico e turistico del bosco con "la sua valorizzazione
economica".
E’
il mantra di oggi.
Sono
consapevoli che i loro progetti di valorizzazione turistica
dell'Appennino sono del tutto falliti. Parlano di coesistenza dei due
aspetti, quando invece ormai puntano principalmente alla
liberalizzazione del taglio boschivo.
L'ultimo
fatto è la vendita all'impiedi di un'abetaia di 20 ettari nella zona
di Succiso per 0.80 euro a quintale per 4.500 quintali complessivi.
L'ha
venduta il Consorzio omonimo ad una ditta austriaca e ne ricaverà la
miseria di neanche 40.000 euro.
Non
è un caso isolato. La regione ha fatto nascere consorzi forestali
per organizzare minutamente tale spoliazione dei boschi, in modo da
non comparire direttamente.
I
consorzi raggruppano proprietari privati e proprietà pubbliche
indivise, le comunalie. Ci sono sempre meno cooperative di taglio
locali. I consorzi vendono ettari di bosco a ditte che sfruttano il
lavoro
nero di extracomunitari. Questo avviene soprattutto perché si è
sviluppata enormemente la produzione di stufe a pellet, oltre che
quella di centrali a biomassa.
La
domanda di legna da ardere dipende quindi dallo sviluppo del settore
industriale della combustione, che ha sostituto completamente il gpl
in montagna.
I
bomboloni del gpl, quando non dismessi, servono solo a cucinare. A
riscaldare si è tornati ad usare la legna.
Nei
nostri monti, la green economy ha prodotto solo combustione di
biomasse di legna. Con uno sviluppo abnorme di emissioni di polveri
sottili e sostanze cancerogene, come il benzopirene. Ma la
combustione di pellet si è sviluppata soprattutto nell'alta pianura.
I cilindretti di pellet derivano dalla lavorazione ad alta
temperatura e pressione della legna sminuzzata.
Siamo
arrivati al punto che le autorità che favoriscono i tagli boschivi
sono le stesse che dal 1° ottobre 2018 impongono di non accendere le
stufe a pellet sotto i 350 metri di altitudine, nella fascia di alta
pianura dove è massima la loro diffusione e dove costante è la nube
di polveri gravemente nocive alla salute.
Sono
temi con cui occorre confrontarsi da subito.
Si
tende a credere che tecnologie innovative risolveranno qualsiasi
problema, ma non è ciò che sta avvenendo. Le innovazioni
tecnologiche nella combustione di biomasse non riescono a garantire
filtri sufficienti a fermare l'emissione di polveri, come il
gravissimo dato di emissione di benzopirene in Trentino Alto Adige
conferma, e quindi portano all'abnorme sviluppo di sostanze nocive
nella pianura Padana, già congestionata dai fumi industriali.
Al
punto che dopo aver venduto centinaia di migliaia di stufe si è
arrivate al paradosso di vietarne l'accensione.
Non
occorrono tanto tecnologie, quanto strategie per affrontare la
questione delle risorse naturali con una popolazione che cresce
esponenzialmente.
Per
affrontare i temi ecologici impellenti, l'enorme espandersi
dell'urbanizzazione nel pianeta, le migrazioni che non cesseranno
perché spinte sempre più dall'impoverimento dei più e dal
vorticoso circolare di immagini di ricchezza del primo mondo.
L'immaginario
attuale ci ripropone di continuo una soluzione globalista dei
problemi, intesa come sviluppo economico-finanziario incessante. Ma è
pura mitologia. Occorre pensare invece a soluzioni per il piccolo,
per micro comunità immerse nella natura, opposte a metropoli senza
fine come suggerisce l'attuale economia di scala. Architetture
semplici, integrate nella natura, invece di grattacieli che superino
le nuvole come nelle metropoli.
Occorre
pensare alla montagna e ai boschi come ad un bene da conservare ed
accrescere non solo per lo sviluppo turistico, ma soprattutto per
piccoli insediamenti produttivi agricoli e di allevamento animale.
Non ha senso che non ci siano mucche al pascolo in montagna e che
siano costrette in allevamenti industriali in cui non vedono mai il
cielo e l'erba, come a Selvanizza, Monchio e Tizzano.
Il
progresso non è tanto nell'evoluzione tecnologica quanto in quella
morale, in cui inquadrare lo sviluppo industriale medesimo.
La
produzione di merci non deve essere fine a se stessa, cioè tesa alla
massimizzazione del profitto e alla distruzione di risorse, ma
contemperare la conservazione delle stesse. Anche perché una
produzione di merci sempre più massiccia ci porterà presto alla
loro invendibilità, ad una crisi di sovraproduzione che creerà
un'ennesima crisi finanziaria, come le attuali bolle del debito
preconizzano.
Occorre
pensare il futuro come liberazione da ogni forma di prevaricazione,
liberazione da ogni domesticazione dell'uomo attraverso immagini di
potere e ricchezza. Occorre fermare tutto questo, investire più
sull'innovazione sociale che tecnica.
Occorre
un'innovazione che scardini il principio della proprietà e della
divisione del lavoro che la società automatizzata dovrebbe
addirittura amplificare.
Giuliano
Serioli
Rete
Ambiente
Parma
salvaguardia
e sostenibilità del
territorio
martedì 28 agosto 2018
Inceneritore di Parma e prospettive per un futuro sostenibile
Lettera aperta
al
Sindaco di Parma Federico Pizzarotti
all’Assessore
all’Ambiente Tiziana Benassi
Parma,
28 agosto 2018
Come
tutti i cittadini abbiamo avuto modo di seguire le ultime vicende
relative all’impianto di incenerimento di Iren, situato ad
Ugozzolo, ed in particolare la richiesta di incremento della capacità
autorizzata di combustione (da 130.000 t/a al “carico termico”
ovvero circa 190/195.000 t/a) inoltrata dallo stesso gestore.
Abbiamo
letto l’accordo sottoscritto il 30 luglio tra Regione, Comune ed
Iren, in cui quest’ultima “autolimita” la quantità di rifiuti
all’inceneritore a 130.000 t/a, estendendo il territorio di
conferimento oltre alle Province di Parma e Reggio Emilia (aggiunta
nel 2016) alla Provincia di Piacenza.
Lo
stop all’incremento è un passo in avanti ma è solo momentaneo e
non del tutto rassicurante.
Da
quel che si è capito il contenuto dell’accordo andava trasferito
nella modifica autorizzativa, precisando che l’accordo cessa di
efficacia al 31.12.2020, ovvero in corrispondenza al termine di
validità del Piano regionale rifiuti che individua i flussi di
rifiuti urbani da inviare anche all’impianto di Parma, “senza che
ciò comporti la necessità di modifica dell’autorizzazione
integrata ambientale” e comunque nel “rispetto della normativa
nazionale e della pianificazione regionale”.
Dal
sito regionale abbiamo scaricato il nuovo atto autorizzativo
(determina ARPAE 3992 del 2 agosto 2018) nel quale ci sembra vi sia
un passaggio stonato.
In
tale atto, dopo aver richiamato l’accordo citato, si afferma che “a
far data dal 1 gennaio 2021” la quantità di rifiuti (di ogni
genere) in ingresso all’inceneritore sarà di 195.000 t/a.
Tale
previsione stupisce e preoccupa in quanto ci saremmo aspettati che
alla data di scadenza del 31.12.2020 la quantità autorizzata
rimanesse vincolata alla (nuova) pianificazione regionale e che
comunque, fino alla definizione della stessa, rimanesse la quota di
130.000 t/a.
Invece,
da quanto indicato nella nuova autorizzazione, l’incremento a
195.000 t/a appare “automatico”, svincolato da qualunque atto
programmatorio, come se la limitazione attuale fosse solo un preludio
al via libera totale del gennaio 2021.
Non
siamo affatto convinti, dalla lettura del provvedimento di VIA e di
AIA del 2016, che vi sia un obbligo “automatico” di incremento
nella quantità dei rifiuti e quindi qualunque modifica
all’autorizzazione crediamo debba essere discussa tra gli enti (in
questo caso in prosecuzione della conferenza dei servizi del
29.06.2018, come pure delle note inviate dal Comune, come ricordato
in premessa nella nuova autorizzazione).
Ci
chiediamo allora se l’accordo del 30 luglio scorso avesse come
obiettivo semplicemente una dilazione temporale dell’incremento
della quantità di rifiuti autorizzata all’inceneritore di Parma
piuttosto che un serio ripensamento da parte di Iren sulla richiesta
di aumentare i rifiuti inceneriti, una decisione questa che aveva
visto l’opposizione di molti soggetti, anche di importanti realtà
economiche locali, tutti compatti a dire no ad ogni possibile
incremento.
Un
netto no che non prevedeva un termine temporale o una momentanea e
breve sospensione dell’incremento ma definiva una visione
strategica del territorio per andare verso l’economia circolare,
concetto che oggi l’Unione Europea spende come percorso
ineluttabile.
Un
percorso dove l’incenerimento deve diventare un fatto residuale in
attesa di uno stop definitivo, come già deciso dalla regione Marche.
Ora
le domande.
Il
contenuto della nuova autorizzazione è stato approvato
dall’amministrazione comunale di Parma? Oppure Arpae è andata
oltre alla trasposizione dell’accordo nell’atto?
Se
così fosse l’amministrazione intende intervenire e chiedere una
modifica dell’atto del 2.08.2018 per la parte qui messa in
evidenza?
Rete
Ambiente Parma
Farmacia
Annunziata Parma
Giuliano
Serioli
Rete
Ambiente
Parma
salvaguardia
e sostenibilità del
territorio
lunedì 27 agosto 2018
Prato di Monchio, è allarme acquedotto
La rete idrica "fa acqua" e provoca smottamenti
Un
appello alla Regione contro Iren e le stesse autorità comunali da
parte di residenti e proprietari di seconde case.
La
frazione di Prato di Monchio è sul piede di guerra per un movimento
franoso che provoca colamenti di terra, fessurazioni nelle abitazioni
e avvallamenti nella strada.
La
frana sembra essere causata delle abbondanti perdite dell’acquedotto
locale.
Il
sindaco, interpellato più volte, addossa le responsabilità a Iren,
che lo ha in gestione.
Me
nessuno si fa carico delle proprie resposabilità, nessuno si occupa
del problema.
E
i cittadini si sentono abbandonati.
L'acqua
sversata dall'acquedotto, che risulta essere ormai un colabrodo, le
piogge frequenti dell’ultimo periodo, una miscela micidiale che sta
facendo smottare il terreno verso valle, spingendolo contro le case e
i muretti a secco, provocando perfino la deformazione dello stesso
tracciato stradale.
A
favorire il processo la roccia sottostante l’area, che fa da piano
di scorrimento.
Si
tratta di argilliti rosse della formazione argilloso-calcarea,
dominante in zona.
L'argilla,
impermeabile, impedisce all'acqua di penetrare in profondità e il
suo dilavamento crea smottamenti quando non addirittura veri e propri
colamenti di terra, che diventata fradicia assume un peso
sproporzionato, una massa enorme che scivola a valle.
Quest'anno
il movimento è più consistente e le fessuarzioni nei muri delle
case più marcati.
Due
case sono già state "legate" con moduli di ferro: senza
interventi si sarebbero aperte e i muri sarebbero crollati.
A
questo punto è urgente intervenire. Riparare l'acquedotto e
riattivare ii canali di scolo, per favorire il drenaggio dei suoli.
Tutto
l'assetto dei terreni a valle del passo del Ticchiano dovrebbe essere
monitorato, come le frane di Ceda e di La Valle suggeriscono.
Tutta
la conca che scende dal Passo è costituita da tale formazione
argillitica ed evidentemente la direzione degli strati coincide col
verso delle pendenze sul terreno.
La
dismissione di ogni forma di agricoltura in zona ha significato
l'abbandono di ogni opera di scolo delle acque, che in passato
limitava il fenomeno e che ora sta letteralmente innescando un enorme
movimento franoso verso valle.
Con
la complicità del silenzio delle autorità locali.
Giuliano
Serioli
Rete
Ambiente
Parma
salvaguardia
e sostenibilità del
territorio
martedì 7 agosto 2018
No al decreto brucia foreste
Un
danno
enorme e forse irreversibile per le nostre montagne
Pensate
ad un albero, inserito in una entità unica, quale può essere un
bosco, o una foresta.
Non
è semplicemente un pezzo di legno che, se tagliato, produce energia
e può essere sostituito (dopo almeno trent'anni) da un altro “pezzo
di legno", un'altra pianta.
Non
è così.
Un
albero è soprattutto un essere complesso, necessario alla nostra
respirazione, al nostro esistere.
Pensate
ad un bosco, esso agisce come un pompa naturale, alimentata
dall'energia del sole, che permette la circolazione dell'acqua sulla
Terra.
Il
bosco è un polmone, aiuta a filtrare e rinnovare l'aria fissando il
carbonio contenuto nell'anidride carbonica e liberando ossigeno
durante il giorno.
Vi
siete mai chiesti perchè d'estate in città non piove mai ed invece
in montagna agiscono frequenti temporali locali?
Proprio
ci sono i boschi. Che determinano microclimi che ci permettono di
respirare meglio e di vivere al fresco.
Attraverso
microscopiche aperture presenti sulle foglie, le piante respirano e
traspirano, cioè rilasciano vapore acqueo che va a formare nubi, da
cui l'acqua tornerà al bosco coi temporali.
Medicina
Democratica ha inviato un appello, sotto forma di lettera aperta, al
Presidente della Repubblica, per la difesa delle foreste dalla loro
“valorizzazione energetica" che costituisce in realtà un loro
impoverimento, in nome della produzione di energia attraverso
combustione.
Sono
le cosidette biomasse, già sottoposte a critiche scientifiche da
associazioni ambientaliste e da numerosi scienziati.
La
lettera aperta si oppone al decreto riguardante “Disposizioni
concernenti la revisione e l’armonizzazione della normativa
nazionale in materia di foreste e filiere forestali” che viola la
Costituzione Italiana e rappresenta un danno all’ambiente, alla
salute e all’economia del paese.
È
nostra convinzione, supportata da dati scientifici, che tale
provvedimento contrasti con alcuni punti fondanti della Costituzione,
in particolare con l’articolo 9 dove la carta recita “La
Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico
della Nazione”.
E
poi all’artcolo 32 dove si legge “La Repubblica tutela la salute
come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della
collettività”.
Ed
anche all’articolo 41. L’iniziativa economica…“non può
svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare
danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Il
nuovo dispositivo porterebbe danni enormi all’ambiente,
all’economia e alla salute dei cittadini. Promuovendo la
“valorizzazione energetica” del bosco, verrebbe in realtà
promossa una fonte energetica inefficiente, favorendo il taglio del
bosco in modo incondizionato e massiccio.
Ciò
si tradurrebbe in danni al patrimonio ambientale, come consumo e
degradazione del territorio, offesa al patrimonio boschivo e
ambientale italiano, già incentivato dallo smantellamento del Corpo
Forestale, degrado di fondamentali servizi ambientali quali la
depurazione dell’aria, la regolazione del regime idrico, la
conservazione del suolo e della biodiversità, l’aumento delle
emissioni nette di gas a effetto serra, aumento dell’inquinamento
atmosferico anche per il venir meno dell’azione depurativa
dell’aria operata dalle piante, oltre che per l'aumento di
combustione di biomassa.
Il
nostro Paese è sotto procedura di infrazione da parte dell’UE per
la cattiva qualità dell’aria.
Il
rischio è che il proliferare incontrollato di impianti a biomassa
porti alla combustione di materiale pericoloso per la salute
pubblica.
Le
centrali a biomassa portano con sé uno spreco di prezioso denaro
pubblico. Quasi sempre sono in parte finanziate dalle Regioni, le
stesse che finanziano la produzione di cippato perchè il mercato
della legna da ardere, stante i suoi prezzi, non accetta di rifornire
le centrali.
Le
centrali a cippato di legna nel Parmense sono già cinque: ospedale
di Borgotaro, Monchio delle Corti, Neviano Arduini, Calestano, Varano
Melegari. Un totale di circa 3,5 megawatt di potenza termica e di
circa 5.000 tonnellate di consumo annuo di cippato, corrispondenti a
circa 50 ettari di bosco annui.
In
sostanza il “Testo Unico sulle foreste e sulle filiere forestali”
considera i boschi principalmente come fonte di energia rinnovabile,
cioè legna da ardere e cippato per le centrali a biomassa.
Tale
interpretazione del Testo Unico è avvalorata ancor più dal fatto
che per conseguire gli obiettivi 2020 in materia di fonti
rinnovabili, la legge finanziaria 2018 ha prorogato gli incentivi
pubblici a favore degli esercenti di impianti per la produzione di
energia elettrica alimentati da biomasse.
Risulta
evidente che, a causa del combinato disposto di Testo Unico e Legge
Finanziaria 2018, le nostre foreste subiranno una pressione molto
forte da parte dei gruppi industriali che vogliono lucrare sugli
incentivi.
Un
danno enorme e forse irreversibile per le nostro montagne.
Giuliano
Serioli
Rete
Ambiente
Parma
salvaguardia
e sostenibilità del
territorio
martedì 17 luglio 2018
Tagli veri, risposte apparenti
Alla
nostra lettera denuncia, inerente i tagli boschivi di questi ultimi
due anni sui monti del parco del monte Fuso ( M.ti Fuso, Lavacchio,
Faino), è stato risposto. Lo ha fatto la Comunità Montana Parma
Est, a firma del suo presidente, nonché sindaco di Langhirano,
Giordano Bricoli.
La
risposta è in burocratese. Per capirci che roba sia ve ne diamo
esemplificazione: "...dalle foto prodotte si ritiene che i tagli
indicati - -ultimo taglio Lavacchio ovest - possano riguardare a)
domanda prot 1253 del 24/02/2016 oggetto di sopraluogo in data
15/3/2016 autorizzata in data 22/3/2016 prot 1843 in cui è stato
ammesso il taglio per i mappali 115 109 foglio 116 Neviano con
rilascio di matricine con diametro minimo pari a 20 cm. ad 1,30 metri
di altezza ad una distanza di 8 metri l'una dall'altra...".
La
lettera di risposta è tutta così per ben 4 pagine. In astratto, con
una precisione burocratica proterva, scavalcando la realtà
distruttiva del taglio.
Saranno
reali i 20 cm delle matricine e gli 8 metri di distanza dichiarati?
Ci
crediamo poco.
In
ogni caso matricine isolate sono sottoposte alla sferza delle
intemperie.
Il
fatto è che non si prende nemmeno in considerazione la sostanza del
nostro esposto, non si risponde nel merito.
Parlavamo
di forte pendenza dei versanti, con un'acclivita sempre intorno al
100%, se non maggiore in alcuni punti.
Dicevamo
che un taglio raso matricinato in simili versanti di monti,
costituiti da sedimenti tipo flysc, cioè alternanze di arenarie
basali, marne ed argilliti, alla prima forte pioggia rischia di
produrre l'asportazione del soprasuolo, del suolo e degli apparati
radicali dei polloni così indeboliti.
Si
noti che il suolo, in montagne a struttura geologica tipo flysc ed in
versanti ripidi, tende ad essere molto sottile e asportabile
facilmente dando luogo a colamenti e frane.
Dicevamo
nella lettera che l'aver trasformato sentieri in carraie per il
passaggio di mezzi pesanti avrebbe degradato ulteriormente tali
versanti.
La
normativa Regionale, infatti, prevede il ripristino da carraie a
sentieri una volta concluso il taglio. Cosa che nessuno si preoccupa
di fare.
Nel
2016 un imprenditore era stato multato dalla forestale proprio per
tale motivo in seguito a tagli sul monte Fageto.
Ribadivamo
che ci sono versanti sul monte Faino neanche attraversati da sentieri
su cui chi ha tagliato ha letteralmente impostato nuove carraie con
grave degrado e pericolo di frane.
Nei
borghi la gente è a conoscenza del fatto che alcuni imprenditori
danno da tagliare con mezzi meccanici pesanti a gente dell'est pagati
in chissà qual modo.
Tutti
quei tagli non portano ricchezza alla montagna, i soldi se ne vanno
altrove assieme alla legna.
Quello
che resta dopo un taglio raso lo si vede dopo un paio d'anni.
Matricine
stente, apatto che si siano salvate dalle intemperie, e cespuglieti.
Questi,
da lontano, colorano di verde i versanti come niente fosse successo,
mentre in realtà le loro radici non danno alcun sostegno alla
montagna, non tratterranno il soprasuolo.
Con
piogge torrenziali verrà giù tutto.
E
intanto il manto boschivo di prima non c'è più. Non se avvantaggia
di certo il paesaggio, ma neanche la cattura di CO2 da parte del
verde.
Che
se qualcuno pensa che i cespuglieti, cresciuti dopo un paio d'anni,
catturino la stessa quantità, sbaglia. E' il manto boschivio integro
a farlo.
Diversi
tecnici forestali ormai affermano che il taglio raso di un ceduo
invecchiato 40 o 50 anni è sbagliato, che sarebbe molto meglio per
la struttura geologica della nostra montagna avviare un diradamento
selezionato.
In
tal modo la copertura boschiva rimarrebbe integra dal punto di vista
sia paesaggistico che di cattura della CO2.
I
versanti non subirebbero il degrado cui sono sottoposti ora, con
grave pericolo per le valli in caso di piogge distruttive.
Il
taglio a diradamento selezionato sarebbe più controllato dalle
autorità preposte, schivato dagli imprenditori del taglio raso
speculativo e favorirebbe la crescita di cooperative locali di
taglio, garantendo un'attività economica congra e stabile per gli
abitanti della montagna.
Giuliano
Serioli
Dimitri
Bonani
Raffaella
Sassi (Neviano Arduini)
Rete
Ambiente
Parma
salvaguardia
e sostenibilità del
territorio
venerdì 18 maggio 2018
Dopo il Fuso il Faino, E' distruzione scellerata del bosco.
Constatiamo che la Comunità Montana invece di mettere un freno ai tagli, continua ad autorizzarne su forti pendenze, addirittura su torrenti.
Come si può vedere dalla cartina, sono stati fatti altri nuovi tagli nella valle del "Rio del Faino" a circa quota 820 metri, come dalle foto stesse.
Hanno tagliato proprio il giorno martedì 8 maggio (il verde delle piante tagliate ne è testimonianza) che è ben oltre il limite massimo, il 15 Aprile.
Hanno tagliato proprio il giorno martedì 8 maggio (il verde delle piante tagliate ne è testimonianza) che è ben oltre il limite massimo, il 15 Aprile.
Inoltre hanno tagliato, come dalle foto, su forte pendenza, ostruendo addirittura il torrente con il legname tagliato, oltre ad aver creato una strada con la ruspa proprio sul torrente del Faino per passare con mezzi pesanti (zona 1 della mappa).
Oltre a questo, hanno fatto un nuovo taglio sul sentiero Cai 761A sempre sul Faino, in quello che fino all'anno scorso era un bellissimo sentiero immerso nei boschi in cui insiste una carraia segnalata per il trekking a cavallo, proprio per la bellezza di transitare per quel (ex) verde bosco (zona 2 della mappa).
Infine, hanno fatto un altro taglio proprio a pochi metri a nord della cima del Monte Faino scendendo poi nel versante ovest non molto sopra al taglio precedente (zona 3 della mappa).
Di seguito le foto.
Rete Ambiente Parma
La carraia costruita addirittura sul torrente del Faino per poter accedere coi mezzi pesanti sull'altro versante appena disboscato
Ben visibile è il torrente completamente ostruito sia destra che a sinistra
Il disboscamento sopra alla suddetta carraia
La pendenza su cui è stato fatto l'esbosco è notevole, anche se la foto non rende molto
Evviva i tagli meccanizzati industriali...
Da come si evince dal verde delle piante tagliate in foto, i tagli sono stati appena fatti e si è andati ben oltre al limite di data consentito dalla legge
Le piante verdissime appena tagliate e quelle tagliate tempo addietro, hanno completamente ricoperto il torrente del Faino
Guardando a valle rispetto alle foto precedenti, si vede che a destra (lato ovest) sono andati a tagliare le piante fino al limite massimo, in terreno estremamente delicato a ridosso del torrente.
Il taglio prosegue poi in maniera molto più ampia verso ovest, dove nella foto non è visibile la carraia da cui sono scesi nella valle e che hanno aperto.
Qui siamo nella zona 2 della mappa, dove il sentiero Cai in oggetto era immerso in un bellissimo bosco lussureggiante...
Qui invece siamo nella zona 3 della mappa, appena sotto alla cima del monte Faino.
Il taglio prosegue poi in modo molto ampio scendendo a destra nel versante ovest (verso il Rio del Faino).
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